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La prevalenza della scimmia

Pietrangelo Buttafuoco

Gabbani l’ha portata al Festival di Sanremo, Renzi alla direzione del Pd: una marcia trionfale. Ma non perdetela di vista. È la bestia ideale per ogni vostro travestimento

Tra i setti pianeti appena scoperti dalla Nasa – tutti abitati… – ci sarà quello, tanto atteso, delle scimmie? Chissà. Intanto in Italia si balla. Matteo Renzi fa suonare “Occidentali’s Karma” alla direzione del Pd – ben prima dell’inno nazionale – e il motivetto, la canzone di Francesco Gabbani vincitrice del Festival di Sanremo, si conferma come il meme ricorrente, virale, inesorabile e forse rivelatore di un destino: qualcuno dovrà fare Tarzan. E un altro, insomma, dovrà essere Cita.

Scimmia chiama scimmia. E il primate è l’anello d’avvio di ogni travestimento. Oggi più che mai utile. A cominciare dalla politica. È un apologo l’epifania del quasi-bipede. Qualcosa la viene sempre a raccontare.

 

Pinuccio Tatarella nel suo primo giorno da ministro del governo di Silvio Berlusconi, arriva al ministero delle Telecomunicazioni, all’Eur, e deve aspettare di entrare perché nel frattempo – chissà come – una scimmia scappata da chissà dove scorrazza tra gli uffici, nelle stanze e nei corridoi della sede.

Vigili del fuoco, uscieri e impiegati di concetto – armati di cordame – sono sguinzagliati in ogni anfratto. I veterinari s’aggirano con le siringhe colme di narcotico e Pinuccio strabuzza con tanto d’occhi: “Ancora non hanno capito che la scimmia sono io”.

 

Nulla di nuovo entra, infatti, in scena. Il canovaccio è collaudato. Quella della scimmia, infatti, s’aggiunge alle maschere della Commedia dell’arte – molte delle quali in preparativi per il Martedì grasso – facendo seguito alle varianti, tutte squillanti, di un preciso archetipo. Tutto di travestimento.

Tarzan e Cita, appunto. E dunque Bestia e Bella. I ruoli sono quelli ma la febbre è scimmiesca, parodistica e perciò snaturata: Bestia, di suo, sarebbe un lupo ma di fatto è uno scimmione. Bella, più che ragazza – un travestimento di Jane, in qualche modo – incespica nel presagio peggio che Cita.

La mancanza di scopo non onora la commedia. Così in ogni ancheggiare. Eracle che se ne va per fatti suoi vestito con la sola pelle di leone (e perciò travestito di furia felina) ha i glutei scoperti e quindi il popò abbronzato. Basala e Achemone, due fratelli, due perdigiorno – figli di Teia e Oceano – se lo vedono arrivare, aspettano che si addormenti e gli rubano le armi.

La loro madre, Teia, originaria di Agira, li aveva avvisati: arriverà Melampigo e vi sconfiggerà. (cfr. il dizionario Rocci: Melampigo, ovvero nero-culo, da cui la famosa minaccia: ti faccio un…).

Eracle, infatti, li cattura. Li annoda a testa in giù su un bastone e se li porta via. Quelli, giusta posizione, lo guardano dove proprio non dovrebbe mai battere il sole. Glielo vedono nero e ridono. Eracle ne chiede ragione, quelli si spiegano e l’Invincibile delle già date Dodici fatiche – appagato da una botta di buonumore – divertito assai dai due gaglioffi, li libera.

La faccenda in sé però non piace a Zeus. Il padre degli dèi, in tema di popò – forse è un poco omofobo? – non transige. Acchiappa i due – i Cercopi – e li trasforma in scimmie. E li getta poi nelle Pitecuse, ossia l’arcipelago dov’è allocata l’Isola delle Scimmie, culla della loro discendenza di similformes vertebrata giunta fino a noi.

Ovidio alla mano nessuna nuova metamorfosi attende il sipario. Tutto è nell’eterno carnascialesco del travestimento. Il palcoscenico deve tenere sempre a distanza il pubblico altrimenti non c’è scena, bensì solo l’o-scena dissipazione di pathos. Perfino l’ingombro nel cavallo dei pantaloni di Gabbani, assai ammirato nel non-rimosso omoerotico dell’Ariston, va in dismissione paralizzante.

Nulla può Desmond Morris, l’etologo inutilmente assai in voga usato a bella posta per nobilitare l’hit di Gabbani. Il precipitato qui è tutto – e scusate se è poco – di Friedrich Nietzsche. Karma o non Karma, Kali-Yuga che sia, “non sono forse tutti i ‘valori’ allettamenti con cui la commedia si prolunga, senza però avvicinarsi in alcun modo a una soluzione?”.

 

Bella non ha avvenenza e Bestia s’aggrappa all’elemosina di una liana. Totò-Tarzan affina un’eleganza, la bombetta in testa. Ed è la proverbiale signorile distanza – pur tra insidie di felci e fiere feroci – voluta dal principe De Curtis per se stesso e per lo spettabile pubblico.

Bella e Bestia, nel travisamento scimmiesco, fanno sempre giochi di travestimento. Cosa mai andò a pensare Pasquale Festa Campanile quando scrisse “Bingo Bongo” (il film con Adriano Celentano) non è dato sapere ma da un aereo che precipita si salva solo un bambino raccolto in volo da un albero che poi lo appoggia col culetto sul suolo.

Ecco, non proprio Melampigo, ma sempre di sederino si tratta. Il bimbo cresce, diventa peloso, viene scoperto dagli scienziati e – trascinato a Milano – giustamente perde la brocca per la dottoressa Laura, l’incantevole Carole Bouquet. Una Bella più che calata nella parte “travestita”.

Bella e Bestia, quindi, sono solo ruoli interscambiabili nella sublimazione del triangolo obbligato: Tarzan, Cita e Jane. E c’è, infatti, un’altra vecchia gag: Raimondo Vianello con un perizoma maculato piomba addosso a Jane e la ragazza (Sandra Mondaini), travolta, viene messa da parte perché nel talamo di rami intrecciati non vanno ad accasarsi l’uomo e la donna – il maschio e la femmina – ma il primate ominide e l’umanoide postumo.

Ovidio alla mano ogni metamorfosi si trascina un preciso travestimento. “Chi vuole lo spasso non ha che da comprarsi una scimmia!”, recita il detto dei padri. Lo stucchevole innesto con il linguaggio gestuale di Morris, con tutto il rispetto, non regge però la vastità del catalogo d’arte.

E il catalogo, va da sé, è questo.

 

La selezione gerarchica è ben dura. Dall’alto si va al basso. E l’inciampo di “Occidentali’s Karma” viene ben ultimo se il vertice massimo – quasi il sorgere aurorale di una magnificenza – non ha altro immenso monumento che il Vittorio Gassman di “Una relazione per un’accademia” di Franz Kafka. E’ la storia di Rotpeter, Pietro il rosso. E’ uno scimmione catturato nella foresta, portato nella civiltà europea e costretto a scegliere tra la gabbia di uno zoo e il Music Hall.

Una forma chiama l’altra. Lo scimmione, pur di sfuggire alle sbarre, impara a fumare, diventa un provetto conversatore e per la prima volta – al punto di essere reclamato per una lezione in accademia – laddove sono sempre gli uomini a indugiare nella bestialità, traveste la propria natura animale di dignità umana.

Ogni forma ha una maschera. L’immaginario italiano non prescinde da quella superba interpretazione su cui il divo – con voce professorale – riusciva passo dopo passo a muovere l’immedesimazione al punto tale che tanto lui si sottraeva alla mimica propria di chi abita la foresta quanto più il pubblico in sala – la prima al Teatro Valli di Reggio Emilia – sentiva venirsi addosso la grattarola.

Miracoli dell’attore. Prodigi che Marina Confalone il 16 febbraio scorso ha ripetuto nell’aula di Chimica dell’Università Federico II di Napoli. L’attrice ne farà una tournée ma intanto ha ipnotizzato gli scienziati arrivati ad ascoltarla. Ha fatto rivivere loro un inganno, il solito: quello della sovrapposizione tra simili irriducibilmente dissimili – uomini e scimmie – su cui altro patto non può darsi che l’imitazione reciproca.

Un’imitazione, va da sé, dichiarata. Tanto da Pietro il rosso, quanto dall’eventuale Gabbani applicato alla politica, dove abbonda la Bestia travestita da Bella, giusto oggi che il prendere maschera – nella prevalenza della scimmia – diventa un tana libera per tutti.

 

Beata è la maschera che si dà già nel volto. Labbra serrate e lingua tremante conficcata nell’arcata gengivale inferiore. Fronte snodabile e crine scosso nel saliscendi sincopato. Ha gli occhi sbarrati e le gote enfie di respiro che vanno a produrre versi di una foga irrefrenabile. Se non si ride, di che rider si suole? È Franco Franchi.

La sua mimica – nella sovrapposizione quasi ginnica tra simili dissimili, uomini e scimmie – assume dinamiche proprie di una molla. Quindi si scava nelle ascelle, poi si gratta in testa, si sgranchisce, s’allunga, s’accartoccia e quando lascia la scenetta dello scimpanzé per proseguire poi con quella della gallina che becchetta, nello stacco – ma sono i miracoli dell’attore, questi – Franco Franchi passa dall’opera buffa antropomorfa all’epica regale del Gallus sinae, come niente.

Certo, la gallina, il nume domestico per eccellenza, ma anche l’unico vero assillo di Charles Darwin non foss’altro per l’insondabile mistero primigenio: il mai risolto passaggio cronologico tra uovo e gallina al cui confronto l’anello mancante tra la scimmia e l’uomo è solo la tabellina del 2.

E la gallina è, di certo, l’animale intelligente. Servo di scena qual è, ogni canovaccio, non prescinde dalla zoologia. Il vero romanzo di formazione dell’attore è l’osservazione della fauna. Ancor più del metodo Stanislavskij fa sempre d’uopo, prima d’entrare in scena, attrezzarsi con l’enciclopedia “Guarda e scopri gli animali”.

 

Appunto, guarda e scopri gli animali. Lì c’è tutto, e forse si trova anche l’apologo di Alberto Sordi, scolpito poi nella perfezione da Gigi Proietti. Il preciso archetipo. Eccolo. Due amici fanno una passeggiata al giardino zoologico; arrivano davanti alla gabbia del gorilla e ne sono sopraffatti per la meraviglia che promana, meglio ancora: per la somiglianza della bestia, pur afferrandosi alle sbarre, con l’uomo.

“Tale e quale”, dice uno dei due, ammirato. E l’altro, scettico, fa cenno di no: “Ma che dici, non è come noi”. Il primo insiste: “Ma guardalo, ha le gambe, le braccia, il portamento e lo sguardo… identico a quello dell’uomo; è come noi”. Il secondo si ribella: “Ha l’occhiata maligna della bestia; si mette sempre a quattro zampe, non sta in piedi!”. “Sì che sta in piedi”, replica entusiasta l’amico. Preso di foga, lo descrive: “Ed è perfino fiero e poi, guarda bene, è proprio come noi, anzi, ancora meglio”. Ne scorge il fallo – l’ingombro snudato tra il pelame – e dà di gomito: “Ancora meglio di noi; credi a me, questo avrà anche un sacco di donne…”.

Neppure l’evidenza convince l’amico. Si trova a passare il guardiano con la scopa in mano e i due allora decidono di chiedere lumi proprio a questo: “Senta un po’, ma è vero che questo c’ha un sacco di donne?”. Il guardiano si ferma. S’appoggia col mento al manico della scopa. Guarda i due amici, dà quindi un occhiata al gorilla, sbuffa, riafferra la scopa e se ne va. Borbottando: “Un sacco di donne, quello? Ma se non c’ha una lira…”.

Il preciso archetipo. Senza mai una lira.

  • Pietrangelo Buttafuoco
  • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.