Antonio Conte durante una partita del Chelsea, che guida da questa stagione e che ha subito portato in vetta alla classifica della Premier League (foto LaPresse)

Volto che parla

Beppe Di Corrado

Conte, o la capacità di adattarsi. Oggi idolo a Londra, le sue facce raccontano la storia di un allenatore che sta cambiando il calcio

C’è sempre un momento della partita, di ogni partita, in cui Antonio Conte volta le spalle al campo e comincia a urlare: non ce l’ha con i suoi, ma con il quarto uomo che in Inghilterra dalla tribuna neanche si vede, perché è mimetizzato tra le due panchine e il pubblico. Tu lo vedi: il volto tirato, la faccia tesa, la maschera di un uomo che è in lui senza essere davvero in lui. E’ uguale a quello che siamo stati abituati a vedere, ma è diverso. Come se ci fosse una specificità nelle sue smorfie che segue la latitudine della città che lo ospita. La fisiognomica di Conte dipende da che cosa fa, oltre che da chi è. Non cambiano i tratti, né i colori, cambia la tensione e ciò che la provoca. Erroneamente si pensa che gli allenatori replichino un modello all’infinito: lui ha dimostrato che tatticamente è in grado di modificarsi a seconda delle esigenze. Così fa il suo volto, con le relative espressioni. Così fa il suo corpo, con le relative movenze. Londra è una novità che l’estetica contiana racconta meglio delle sue parole pronunciate in un inglese che migliora di settimana in settimana. In Italia, specie alla Juventus, la gag della torta nel dopo Leicester-Chelsea probabilmente non ci sarebbe stata: per gli altri (leggasi il giornalisti) e per lui. Perché il volto del Conte torinese era quello di un uomo che non può permettersi neanche una distrazione. Qui, adesso, in una squadra diversa, in un campionato diverso, in un clima diverso – non necessariamente migliore, come dicono in troppi – lui cambia: la fronte si aggrotta per concentrazione, non per predisposizione alla risposta piccata. Parla meno, ovvio. Si muove di più. E’ un’evoluzione, una trasformazione coerente, esattamente come quella del suo percorso professionale: Arezzo, Bari, Atalanta, Siena, Juventus, Nazionale, Chelsea. Dal piccolo, al medio piccolo, al grande, all’enorme, al globale. La sua faccia e le sue espressioni raccontano la storia di un personaggio straordinario, che sta cambiando il nostro calcio più di quanto immaginiamo: la sua percezione all’estero e la sua realtà.

Provate a pensare agli allenatori italiani che sono andati fuori: Capello era già Capello, ovvero campione d’Europa; Ancelotti pure; Ranieri è diventato Ranieri all’estero. Gli altri, invece, erano grandi calciatori che cercavano di diventare grandi allenatori. Conte è diverso: emigrato avendo vinto con la Juventus tutto quello che si poteva vincere a livello domestico, ma non avendo ancora dimostrato di essere una star internazionale. E’ una storia che si sta compiendo adesso: “Anto-n-i-o; Anto-n-i-o; Anto-n-i-o; Anto-n-i-o”, cantano i tifosi del Chelsea, come se fosse lui il campione e non l’allenatore. Come fa a non cambiare espressione? La sua duttilità nel guidare i calciatori è direttamente proporzionale alla sua capacità di abituarsi al contesto. In tutto, per tutto.

L’oggettività che si deve al successo è uno dei suoi asset principali. Conte è parte di una dinastia senza parentela diretta di allenatori che hanno la possibilità di essere giudicati sui risultati, oltre che sul gioco. Ora, a dirla tutta, per una gran parte della seppur breve carriera in panchina, Conte è stato anche uno che ha fatto parlare di sé a prescindere dal risultato. Giocava diversamente dalla massa: aveva riportato un sistema di gioco che aveva usato in passato qualche folle visionario e lo aveva adattato all’utilitarismo di chi voleva arrivare. Oggi non se ne parla più, oggi che il suo modulo con tre difensori, due centrocampisti centrali, due esterni, due mezzepunte, una punta, quel 4-4-2 che diventava 4-2-4 non se lo ricorda quasi nessuno. Lo faceva ad Arezzo, poi l’ha fatto a Bari e a Siena. Alla Juventus non l’ha fatto per due ragioni: mancanza di uomini e upgrade di coefficiente di difficoltà. E’ diventato un 3-5-2 autentico e per certi versi classico: il centrocampo a cinque e soprattutto la difesa a tre erano un adattamento dovuto e poi diventato convinzione totale. E tutti quelli che hanno disegnato Conte come un dogmatico innamorato delle sue idee e della sue convinzioni a tal punto da andarsi anche a schiantare per mantenerle integre, non lo hanno capito. Conte è un adattatore, un facilitatore di sé e degli altri. Fondamentalmente, arrivato alla Juve avrebbe voluto giocare sempre con tre attaccanti, salvo poi accettare che non aveva gli uomini per farlo, soprattutto da quando Pepe si infortunò senza tornare. Le facce, le smorfie, la sua fisiognomica sono una diretta conseguenza della sua dedizione all’adattamento: ricordate i denti stretti con il pugno che si levava verso il cielo quasi a dire “adesso ti meno”? Ecco non c’è più. Perché i linguaggi del corpo sono importanti e lui li ha prima studiati e poi applicati: ti devi adattare a chi hai di fronte, senza sminuire te stesso.

E’ per questo che l’analisi sul sistema di gioco è un dettaglio, adesso. Conte, nella sua carriera, ha vinto per ragioni molteplici, delle quali il come mette gli uomini in campo è una parte. Tanto più che la sconfitta in Europa, o meglio il non essere mai riuscito a vincere in Europa, l’ha riconvinto ancora che di più che il modulo giusto è proprio quello con tre attaccanti. Uno centrale e due esterni. Ciò che oggi al Chelsea replica tenendo i due esterni più chiusi e un po’ più indietro, come due mezzepunte che diventano punte solo in fase offensiva. C’è una partita spartiacque: è quella di Torino col Benfica della stagione 2013-2014. Era il primo maggio e la Juve andò fuori dall’Europa. Forse è stata la delusione più grande fino a oggi della sua carriera di allenatore, superiore anche all’eliminazione dall’Europeo contro la Germania ai rigori. Per tornare alle espressioni, lì Conte aveva gli occhi piccoli, con le palpebre base, uno sguardo tipicamente triste che le foto di quella serata immortalarono perfettamente. Perché il bello di Antonio è proprio che parla con il volto, oltre che con la bocca. Ti dice come sta prima di esordire: felice, carico, arrabbiato, teso, rilassato (mai), triste, sconfortato. Tu lo sai e ti prepari. L’hanno scoperto prima tutti gli italiani, compresi gli anti juventini che fino all’Europeo in Francia lo detestavano e adesso hanno imparato ad amarlo. Quando esultava e poi quando è finita. Ecco, forse soprattutto quando è finita. E la faccia c’entra molto.

Perché quella conferenza stampa di addio alla Nazionale fu prima di tutto un collage emozionante di espressioni, come scrisse Marcello Di Dio: “Gli occhi lucidi, la voce rotta dall'emozione. Un Antonio Conte umano quello che dopo 688 giorni saluta la Nazionale. Neanche nel giorno dell’addio alla Juve dei tre scudetti e del record di punti si era commosso così. Nel breve saluto a Casa Azzurri, sorrisi, abbracci, strette di mano, ringraziamenti per chi ha sopportato ‘una persona non semplice nei rapporti’. E prima di salire le scalette per l'ultimo volo con la truppa azzurra, ha trovato il tempo per un veloce passaggio dal centro sportivo Bernard Gasset, il covo ‘blindato’ di Montpellier. Il ‘sarto che lavora con il materiale che ha’ (Conte dixit) ha confezionato un abito forse non elegantissimo ma comunque più che dignitoso. E oggi che un ko ai quarti di finale (con i campioni del mondo in carica) viene salutato quasi come una vittoria, considerando la genesi di quest’avventura, Conte non vuole dimenticare nessuno: i giocatori, lo staff, i magazzinieri, l’onnipresente segretario Vladovich e ‘una persona silenziosa e incredibile con dei valori umani’, ovvero il team manager Lele Oriali. Per ritrovare il rispetto di tutti rivendicato in fondo a un Europeo sbalorditivo, l’ormai ex ct quella maglia se l’era cucita addosso prima di chiedere a tutti di fare lo stesso. ‘Oggi l’emozione è più forte di ieri, è il giorno dopo che realizzi che è davvero finita’, ha detto prima di tornare in Italia e iniziare l’unica settimana di vacanza (‘speravo di non fare nemmeno questa perchè sarei stato ancora dentro l’Europeo’). Lo attende il Chelsea, una scelta motivata dalla voglia di tornare a lavorare tutti i giorni (‘mi piace sentire l’odore del campo’, giustificò il suo divorzio dall’azzurro a marzo) ma anche da uno stipendio sostanzioso: 6,5 milioni a stagione, due in più dell’ingaggio in azzurro”.

E il Chelsea l’ha accolto, prima così e così, poi benissimo. Senza rifargli la squadra, ma consegnandogli un materiale che avrebbe dovuto plasmare lui. I giocatori. Ruoli, capacità, disponiblità. Poi nomi. Perché sui nomi si sono fatte sempre molte leggende. Prendiamo per comodità la sua esperienza alla Juventus. Aveva Tévez e Llorente come parte fondamentale del suo essere uomo partita di molte partite. Avrebbe potuto scegliere altri: sul primo c’era lo scetticismo di molti. Qualcuno ricorderà i giorni in cui sembrava che Carlitos dovesse andare al Milan al posto di Pato. La Juve si affacciò nella trattativa, senza esagerare, quasi frenata da un non so che di dubbioso. Conte ha dato il via libera qualche tempo dopo: lo voglio. Llorente già c’era, preso a parametro zero. E qui la sua bravura è stata quella di adattarsi a un acquisto che non rispondeva esattamente all’idea che aveva lui. Voleva un centravanti, ma s’immaginava uno più vicino a Osvaldo. Llorente è arrivato a zero e Conte ha avuto due idee intelligenti: 1) aspettare che entrasse in condizione. 2) cambiare impostazione di gioco per sfruttarlo.

Ecco, i gol dell’attaccante basco sono valsi spesso più dei 19 di Tévez, seppur siano stati di meno. Perché erano più inattesi, meno scontati. Erano oltre: perché Llorente non era stato capito dall’ambiente e dal pubblico, perché Llorente non era appariscente né trascinante. Però fondamentale. E nella sua Juventus lo è stato al di là dei numeri superiori alle attese. Così come Pellé per la Nazionale. Così come Diego Costa per il Chelsea. Chiaramente Costa ha un peso specifico maggiore, sia in termini di classe, di standing e di valore intrinseco. Ma il discorso vale lo stesso. E che valga tanto lo si è visto nella lite trasformata poi in pace con l’attaccante spagnolo-brasiliano.

Qui c’è Conte, con tutto quello che il suo carattere complicato e spigoloso porta. Non è un tipo facile, non lo è mai stato. Poco amato perché indisponibile al compromesso con la sua lingua, ma per lo stesso motivo anche molto amato dalla sua gente: juventini, così come baresi, senesi, e adesso supporter del Chelsea. Succede sempre: la rabbia che si genera nell’avversario è direttamente proporzionale alla goduria che si genera tra i tuoi.

Conte è una faccia per molte facce. E’ una certezza, è un terminale. Lo è sempre stato. Anche quando è stato maltrattato, come nel campionato 2007, quello della Juve in B. Quello, sì. Conte fu la vittima di Calciopoli. La vera. Fregato due volte: prima accusato di essere figlioccio di Moggi, bambolotto usato per curare gli interessi della “Cupola” in Toscana; poi retrocesso per colpa di una partita scandalosa per davvero. Alla penultima giornata la Juve, che non aveva mai perso, fece 2-3 in casa con lo Spezia che lottava con l’Arezzo di Conte per rimanere in B. Antonio parlò: “Rispetto tanto i tifosi juventini, ma ho poco rispetto per la squadra. Retrocedere così fa male, però mi fa capire cose che già sapevo. Nel calcio si parla tanto, tutti sono bravi a parlare, adesso sembrava che i cattivi fossero fuori e che ci fosse un calcio pulito, infatti siamo contenti tutti, evviva questo calcio pulito”. Conte, lo juventino Conte, beffato da un pezzo di sé, o meglio da un pezzo che in quel periodo aveva deciso di rifiutare la storia dell’èra juventina in cui Conte aveva dato il meglio. Sembrò un danno calcolato: Conte era stato un assistito della Gea, era stato il capitano della Juventus della triade, era stato il viceallenatore di Luigi De Canio – pure lui gestito dalla Gea – a Siena, cioè nel feudo di Luciano Moggi; era allenatore dell’Arezzo, altro feudo nel quale la Juve ha scaricato i giovani della Primavera per farli crescere. Una storia piccola e in parte dimenticata. Conte è tornato Conte per la dirigenza della Juve in coincidenza con il ritorno di Andrea Agnelli. E’ lì che la sua storia juventina è stata risvelata. Ed è lì che il suo volto è tornato a essere visibile ai tifosi e agli avversari. Per paradosso è da lì che è diventato davvero Conte. Da quella batosta. Metabolizzata, digerita, espulsa. E poi trasformatasi in tutte quelle facce che ha mostrato e che mostra oggi: Bari, Bergamo, Siena, Torino, Italia, Londra. Uguali e diverse.

Allenatore da sempre, dicono in molti e forse per una volta è un luogo comune vero, quindi accettabile. D’altronde aveva 26 anni quando lo teorizzò, nella tesi del diploma Isef: “La personalità dell’allenatore”. Se l’è riletta dopo, se la rilegge ancora. “E’ stato un lavoro interessante, ho provato a raccontare come dovrebbe essere l’allenatore ideale. Prima di tutto un ottimo psicologo, uno che sa ascoltare e che ti spiega le ragioni di una scelta. Purtroppo, e parlo in generale, si curano poco i rapporti umani. A me in fondo è andata bene, da tutti i miei maestri ho appreso qualcosa. Fascetti mi ha trasmesso la fiducia nei giovani, Mazzone il carattere e se non stavi attento ci litigavi, però è uno vero. Trapattoni l’umanità e la disponibilità: quante ore ha trascorso a insegnare calcio dopo gli allenamenti, quando gli altri di solito dicono basta. Lippi mi ha dato la carica di chi non è mai appagato e vuole sempre di più, oltre a una notevole preparazione tattica. Infine Sacchi, cioè lo scienziato del lavoro quotidiano”.

E però un limite l’aveva trovato. Uguale per tutti. Per Fascetti, Mazzone, Trapattoni, Lippi e Sacchi: “Si dialoga troppo poco e quasi sempre a senso unico. Mi piacerebbe che gli allenatori non parlassero con noi solo di calcio, che meritassero il loro carisma non con l’autorità del ruolo e del diritto acquisito”. Quando è diventato allenatore lui dice d’averci provato. Dice che è diverso. Parlare parla. Si vede. Lo ha detto Pirlo nel suo libro: “Il primo giorno di ritiro a Bardonecchia, ha convocato la squadra in palestra e si è presentato. Aveva già il veleno addosso: ‘In questa squadra, cari ragazzi, si viene da due settimi posti in campionato. Roba da pazzi, agghiacciante. Io non sono qui per questo, è ora di smetterla di fare schifo’”. Trasmette ciò che vuole, spiega ciò che fa. Visto prendere un attaccante e raccontargli il movimento da fare, ossessivamente, continuamente. Visto prendere Bonucci e spiegargli il tempo del passaggio in verticale, accompagnandolo con il braccio fino a metà campo. Visto chiedere a uno se la sentiva di giocare. Si parla, dice. Poi si osserva. Uno sguardo per tutti, mentre il pubblico del Chelsea urla ossessivamente Anto-n-i-o, Anto-n-i-o, Anto-n-i-o. E il volto dice molte più cose delle sue parole.

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