Trattoria della Ghiara

Camillo Langone
Il miglior ristorante di cucina emiliana in una città emiliana, un baluardo del genius loci con piatti locali innaffiati da Lambrusco naturale

    Il miglior ristorante di cucina emiliana in una città emiliana. Non ci credete? Considerate che Bologna non è una città pienamente emiliana bensì semiromagnola, e quindi l'Osteria Bottega non è un concorrente diretto della Trattoria della Ghiara. Considerate che la Francescana di Massimo “nomen omen” Bottura non è aliena dal territorio modenese ma certo non può essere classificata come “ristorante tipico”. Considerate come si mangia e quello che si mangia in centro a Parma, a Fidenza, a Piacenza, e dovrete concordare con quanto affermato: la reggiana Trattoria della Ghiara è il miglior ristorante di cucina emiliana in una città emiliana. Lo diciamo dopo averci mangiato due volte, sperando di farlo una terza perché, sopraffatti dal numero di invitanti proposte, non siamo ancora riusciti ad addentare il coniglio dall'occhio nero né il bollito misto con lo zucco, un salame da cuocere che dire rarissimo è dire poco. Gilles Clément, geniale paesaggista francese, ha scritto che “la contaminazione culturale si traduce in una diminuzione dell'offerta di comportamento”. Significa che le conformiste tempure di gamberi ammannite nei ristoranti qui intorno non sono un arricchimento ma un impoverimento dell'offerta gastronomica complessiva. Ogni tempura sostituisce un piatto locale e siccome i piatti locali sono cucinati solo in loco, come dice il nome, se sostituiti si estinguono alla maniera dell'antilope azzurra e della tigre di Bali. Grande perciò il valore identitario e civile della Trattoria della Ghiara, “trattoria” per via del cibo tipico (ma il servizio è da ristorante) e “della Ghiara” per la vicinanza con l'omonima basilica dedicata alla Madonna. La volta scorsa scoprimmo i cazzagai, altra ricetta quasi perduta, il canossello (culatello di Canossa, munito di cotenna e quindi più morbido della più costosa e famosa versione di Zibello), i tortelli di zucca conditi col soffritto, i cappelletti la cui pasta sottile e il cui brodo sostanzioso suscitarono il plauso di Giovanni Lindo Ferretti. Ignorando l'incongruo piatto segnaposto, vetroso e marino, e le mezze maniche di Gragnano, unico cedimento della carta, stasera proviamo i verzotti ripieni di carne, il savarin di riso omaggio dichiarato a Mirella e Peppino Cantarelli (in versione filologica con lingua e polpettine), il pecorino della montagna reggiana servito con marmellata di fichi (davvero un grande formaggio). Prima però ci portano l'erbazzone, specialità indigena quasi sempre unta e bisunta e qui invece piacevole e leggera. Dopo il neccio, dolce garfagnino e quindi limitrofo, a base di ricotta e farina di castagne, essendo martedì grasso arrivano minichiacchiere e squisite frittelline. Si beve Lambrusco, ovvio: farsi portare quello a fermentazione naturale. (recensione del 17 febbraio 2008)

    • Camillo Langone
    • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).