Pier Luigi Bersani (foto LaPresse)

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Tante defezioni alla direzione del Pd, ma gli assenti hanno quasi sempre torto

Mario Sechi

Piuttosto che scappare, la minoranza poteva impegnarsi dentro il partito, offrire a Renzi critica e aiuto per evitare la deflagrazione. Dall'estero, Macron non è più "En marche!"

San Pier Damiani.

  

Giganti e nani. E’ la giornata in cui si riunisce la direzione del Pd. Cose grosse. La storia della scissione è una specie di soap opera da “Pedro bevi qualcosa”. Emiliano fa flip flop, Renzi non parteciperà, Bersani non ci sarà, Orfini la officerà con quello sguardo da Shining che passerà alla storia degli amorosi sensi democratici. Romano Prodi avvisa i naviganti: “E’ un suicidio”. Ma il Professore dovrebbe conoscere a fondo le pulsioni autodistruttive della sinistra italiana, ne fu vittima anche lui. Certe patologie non spariscono. Anche Enrico Letta ha detto, con tono grave, mi raccomando: “Non può finire così”. Enrico tra un’andata nel pathos e un ritorno nel tecno-pensiero dovrebbe anche chiedersi quanto il suo “esilio” a Parigi abbia favorito tutto questo. Non per sopravvalutazione del suo Ego, ma la domanda ha una sua storia interiore da risolvere. Poteva impegnarsi dentro il partito, offrire a Renzi critica e quando sarebbe servito aiuto per evitare la deflagrazione del Pd, che poi bisogna pure vederla, questa presunta esplosione. Sì, ok, Renzi è quel che è, ingombrante perfino per se stesso, privo di bon ton, è un cattivista senza freno a mano, ma gli assenti hanno quasi sempre torto. Nel romanzo “La caduta dei giganti” di Ken Follett – primo volume della Century Trilogy - c’è una scena meravigliosa, è quella dell’assemblea della rivoluzione, l’epico 1918, le correnti si spaccano, molti delegati abbandonano la riunione: “E in quel momento, finalmente, Grigorij cominciò a capire perché Lenin era felice. Con i menscevichi e i socialisti rivoluzionari fuori dall’aula, i bolscevichi avevano una maggioranza schiacciante. Potevano fare qualsiasi cosa volessero senza bisogno di compromessi. Si votò, solo due delegati si dichiararono contrari”. E’ l’ebbrezza della scissione, il suo epilogo da manuale di storia. Ma il passato non è mai letto, le sue lezioni vengono prontamente dimenticate, è il presente a dettare la sua legge, nel Pd di Renzi prevale la linea che sostiene il meglio una scissione oggi che tirare a campare e tirare pure le cuoia. Poi ci sono le subordinate, la linea di chi vede il divorzio come una sconfitta dell’irrilevanza. Ipotecare il futuro è difficile, il titolare di List ripete all’infinito che in politica 2 +2 non fa mai 4, può fare 5 ma spesso fa 3. Ezio Mauro su Repubblica fa la sua analisi sulla “mutilazione del grande incompiuto”, vede i demoni del Novecento (i demoni sono un topos del racconto politico dell’ex direttore di Repubblica), cita Pietro Nenni (“un fatto è certo - scriveva Pietro Nenni nel suo diario il giorno della rottura socialista - : oggi l'orizzonte è più scuro di ieri. Perché la scissione getta in crisi tutto ciò in cui abbiamo creduto e per cui abbiamo lottato”) e scodella una logica conclusione: “Deve riconoscere le leadership legittime, senza considerarle abusive, e i leader devono riconoscere le culture di minoranza, impersonando l'anima del partito. Le due parti oggi in contesa non sono all'altezza di questo compito”. Questa è politica, ma il problema è da lettino di Freud, scissione o no, è chiaro che hanno bisogno di andare tutti in analisi. Il caso Emiliano è esemplare, un uomo smarrito nella terra di mezzo, tra i giganti e i nani: ieri scissionista, poi mediatore, oggi in seduta di autocoscienza, in groppa al cavallo e senza Sancho Panza che lo riporta alla realtà. Resta, se ne va, raddoppia? La risposta è la tragicomica biografia del Pd: boh. Resta la domanda del compagno Lenin: che fare?

 

Liberté! Egalité! Cabaret! En Marche! Dicono i quelli della sinistra intelligente, i colti a prescindere guidati da Emmanuel Macron, l’uomo del socialismo smart nouveau. Evviva! Bene, che fa Macron? Ieri sono usciti i numeri del sondaggio di Opinionlab.

 

 

Macron nel primo turno segue Marine Le Pen a 7 punti di distanza nei sondaggi (27 a 20 per la leader del Front National) e deve guardarsi le spalle da un ammaccato ma vivo Francois Fillon, anch’egli al 20 per cento. Si leva una voce dalle poltrone migliori del Palais Garnier, Operà di Parigi, biglietto da 180 euro a serata, patente di intelligenza automatica: “Ah, ma al secondo turno, statene certi, Marine perderà e Emmanuel la trionferà”. Mon dieu, tutti saputi in anticipo, non si discute. Può darsi, forse l’Union sacrée funzionerà, qui umilmente ci permettiamo di segnalare che Macron più che En Marche! è in picchiata: il sondaggio di Opinionlab lo dà vincente al ballottaggio con la Le Pen 58 a 42.

  

 

C’è solo un problema: Macron sembra non avere più benzina per andare avanti, sta perdendo punti su punti. L’8 febbraio guidava la corsa del secondo turno con il 66 per cento, ha perso 8 punti in dodici giorni. La Le Pen invece sempre l’8 febbraio era al 34 per cento e ieri ha fermato la lancetta del contachilometri al 42 per cento, 8 punti in più rispetto a dodici giorni fa. Cosa significa tutto questo? Che se Macron non trova una chiave diversa per la sua campagna elettorale, la distanza sarà destinata a ridursi ancora parecchio. Basta guardare il mercato dei titoli di Stato e le vendite che hanno preso di mira i bond della Francia per capire che sta succedendo qualcosa di nuovo e imprevedibile per chi legge la contemporaneità con le vecchie mappe ideologiche.

  

 

La lezione è nota, la presunzione delle classi colte, degli intellettuali, si sta scontrando con quella cosa che non vogliono vedere: la realtà. Non imparano mai.

 

21 febbraio. Grande giornata per chi legge la storia del Progresso. Nel 1613 Michele di Russia è eletto all'unanimità Zar dall'assemblea nazionale. Comincia l’era dei Romanov. Nel 1848 Marx e Engels pubblicano il Manifesto del Partito Comunista. Qualche giorno fa, gli scissionisti del Pd hanno cantato Bandiera Rossa.

 

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