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Mentre Italia e Germania litigano sulle emissioni, l'Europa rischia l'irrilevanza

Mario Sechi

L'Unione europea è nei guai e se ne esce insieme. Ci sono alternative? Quali? Ci separiamo, l’Ue fa crac e ognuno si arrangia come può

Sant’Antonio, abate

Sturmtruppen e Pulcinella. Fermate quella 500! Crucco, pensa alla tua auto del popolo. Il livello dei rapporti tra Italia e Germania è questo, con i ministri che si mandano amabilmente a quel paese. Dai gas di scarico della Fiat (il problema c’è o no?) alle banche, con Berlino le cose non funzionano da tempo (buona parte delle colpe sono nostre), siamo al titanico scontro tra le Sturmtruppen e Pulcinella. Il viaggio del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni domani in casa di Angela Merkel non risolve nessuno dei problemi, ma almeno riporta (forse) tutti sulla terra: l’Europa è nei guai e se ne esce insieme. Ci sono alternative? Perbacco, la storia è un manuale di soluzioni e soprattutto esplosioni. Quali? Ci separiamo, l’Unione europea fa crac e ognuno si arrangia come può. La Brexit è esattamente questo: leave, andare via.

 

Big Brexit. Ecco perché il discorso di oggi di Theresa May alla Lancaster House è importante. Il premier britannico darà un’indicazione sulla dimensione che il suo governo vorrà dare all’uscita dal single market europeo, tempi e modi di realizzazione. Sarà una prova per i mercati, ma soprattutto per la leadership dell’Unione, cioè per l’unico leader rimasto in piedi: Angela Merkel. Non a caso ben tre titoli dell’edizione internazionale del giornale economico tedesco Handelsblatt oggi sono dedicati a Trump: uno sui costruttori di auto, uno sul protezionismo e uno sulle opportunità della nuova politica economica americana. Per il premier britannico May la complessità della sfida è il frutto delle vicende interne innescate dal referendum, per lei è prioritario rispondere alle pressioni dei Brexiters, ribadire la sovranità del Regno Unito su politiche migratorie e giustizia (stop alla Corte di Giustizia europea), questi due pilastri innalzati dal referendum conducono dritti a una conseguenza: l’Inghilterra non può stare nel mercato unico europeo. E i capi di Stato dell’Unione non possono consentire mezze misure, perché ogni metro dato a Londra significa spaccare quel che resta dell’Europa. Insomma, oggi Theresa May deve fare quello che chiede da tempo il ministro degli Esteri Boris Johnson: sfornare la torta.

 

Trump e le nazioni. Al centro del teatro della battaglia per il nuovo ordine mondiale c’è Donald Trump. Il presidente eletto entrerà alla Casa Bianca venerdì e da quel momento finisce la fase del Tweeter in Chief e comincia quella del Commander in Chief. L’intervista rilasciata l’altro ieri alla Bild e al Times di Londra (davanti a The Donald con il taccuino aperto c’era Michael Gove, parlamentare a capo del movimento referendario del Leave) è stata un terremoto che ha chiarito qual è l’idea di Trump: dialogare con le nazioni. Il presidente americano è un aggiornamento esponenziale del software realista, un Nixon 3.0 che non a caso sta raccogliendo i consigli di Henry Kissinger per la (de)costruzione di un nuovo sistema di relazioni internazionali. Quello che rischia l’Europa – per sua incapacità – è l’irrilevanza e l’autodistruzione del forum di cooperazione. Trump è il presidente dell’Anglosfera, guarda alla relazione speciale con gli inglesi (la tradizione), fa la mossa del cavallo sull’inconcludente Unione europea (e sulla Nato, di cui vuole mantenere il controllo, ma attraverso una profonda riforma della missione e della spesa), sostiene la Brexit come formula della contemporaneità e saldatura del cortocircuito tra élite e popolo (basta tenere d’occhio cosa dice Steve Bannon, il suo stratega, per capire dove tira il vento), ha un conto aperto da regolare con la Cina, cioè un deficit commerciale di 367 miliardi e a Pechino hanno capito che da venerdì alla Casa Bianca la colonna sonora cambia. L’impero è sempre celeste, ma il futuro di una disfunzionante società costruita sul doppio stato (uno strano mercato senza libertà) è meno brillante di quanto appaia. E’ una mappa piena di passaggi rischiosi, ben illustrati in un libro pubblicato dalla Yale University Press intitolato “The End of the Asian Century”. Si gioca una nuova partita a scacchi, Trump è il nuovo secolo americano.

 

Cina e politica del container. Il punto che brilla sulla mappa è a Oriente. Sul Financial Times Gideon Rachman lo mette a fuoco: il vero obiettivo di Trump è la Cina, tutto il resto viene dopo. Al netto del consueto pregiudizio degli intelligenti a prescindere di cui è pervaso l’articolo (il titolare di List consiglia la lettura di un delizioso saggio di William Hazlitt, polemista e critico letterario dei primi anni dell’Ottocento, intitolato “L’ignoranza delle persone colte”), la lettura del pezzo di Rachman è utile per non perdere di vista il bersaglio grosso della contemporaneità, la competizione crescente tra gli Stati Uniti e la Cina e l’instabilità dell’area del Pacifico con il ritorno del Giappone di Shinzo Abe e l’attivismo militare della Cina. E’ là che può scoppiare un’altra guerra. Contagiosa. La Cina è un esperimento di ingegneria sociale i cui esiti sono più che mai incerti. Cosa accade a Pechino se improvvisamente l’espansione commerciale dell’impero di Xi Jinping (il presidente non a caso ospite per la prima volta al World Economic Forum di Davos) si ferma e l’export delle merci in America (483 miliardi di dollari nel 2015) rallenta? E’ una domanda che senza una risposta, cioè un nuovo negoziato sul commercio mondiale, detona in un conflitto armato. Agli Stati Uniti dell’èra Trump non interessa la politica del containment, ma quella del container.

 

Giornali italiani. Sui quotidiani alcuni di questi temi si affacciano in prima pagina, ma quasi sempre senza il quadro complessivo. C’è il chiodo, c’è la cornice, manca il dipinto. Il primo caffè se ne va con il Corriere della Sera: “Duello con Berlino sulle auto”. Sulla spalla Franco Venturini mette insieme i cocci dell’Unione europea, sembra non arrivare al dunque e invece in due righe centra il punto: “Si potrebbe scoprire (…) che Trump ha il grande vantaggio di non essere un ideologo, che predilige il pragmatismo dei grandi uomini d' affari abituati a negoziare su tutto”. I lettori di List conoscono bene l’importanza di quella parola: negoziato. La chiave per capire Trump è quella, tutto il resto è ideologia di un altro tempo e di un altro mondo. Quello che ha perso le elezioni l’8 novembre. A proposito di sconfitta, su Italia Oggi c’è un delizioso articolo del direttore Pierluigi Magnaschi sul “fallito”. Chi è? Obama. E non lo scrive un pericoloso foglio di propaganda populista ma Woche, il settimanale della Frankfurter Allgemaine Zeitung. Ecco la copertina:


Obama non viene dipinto con un’espressione felice, la retorica dell’happy end che abbiamo letto sui giornali italiani (a una dimensione) non c’è. Fallito. E lo scrive il settimanale di uno dei più prestigiosi quotidiani tedeschi. E’ la differenza che passa tra il pre-giudizio e la valutazione obiettiva di una stagione. Magnaschi su Italia Oggi riprende quello che scrive Woche e fa un giro intorno alla presidenza Obama e il suo conflitto con la Russia di Putin: “Per capire quanto sia poco pericolosa oggi la Russia, basta rispolverare qualche dato. Oggi la Russia (con 2,1 mila miliardi di dollari di pil) dispone della stessa ricchezza complessiva dell'Italia (che è, appunto, di 2,1 mila miliardi di dollari). Solo un babbeo può ritenere che l'Italia (o un paese che abbia il suo pil) possa essere un pericolo per gli Stati Uniti. Obama invece lo crede e lo lascia credere a un paese, gli Usa, che vive il comunismo sovietico istericamente, anche perché, riconosciamolo pure, è stato un pericolo che ha dovuto fronteggiare per 70 anni, prima cioè che Ronald Reagan non si limitasse a sconfiggerlo ma arrivasse a disintegrarlo”. Perfetto. C’è altro in pagina? Su Repubblica c’è la saga dei Patrioti italiani a difesa dell’interesse nazionale, l’asset strategico di Barbara d’Urso sui canali Mediaset, ecco il titolo d’apertura: “Agcom, uno stop a Vivendi”. Claudio Tito racconta con precisione la fase da Azzeccagarbugli in cui ha deciso di entrare il governo italiano: fermare la scalata del finanziere bretone Bolloré a colpi di maglio regolatore. Nei giorni della fusione tra Luxottica e i francesi di Essilor, grande tempismo. Perderanno, perché c’è una forza che i commissari dell’Agcom dimenticano: il mercato. E in quello spazio vince chi ha più soldi e ha l’idea giusta. Il settore delle news e dell’entertainment televisivo va esattamente dalla parte opposta rispetto a quello che racconta il piccolo establishment italiano. Fermare Bolloré non servirà a niente, perché nel frattempo i broadcaster tradizionali verranno polverizzati dall’avanzata dei titani di internet che offrono contenuti di alta qualità on demand sulla rete. Tanti auguri. Sul Fatto Quotidiano, di taglio basso, c’è un pezzo per i patrioti: “Alitalia contro il feroce salatino”. Hanno tagliato anche gli snack a bordo. Attendiamo un intervento legislativo per ripristinare la merendina in volo. Un caffè ar vetro e il Messaggero trasmettono alla giornata tutto un altro sapore: “Colosseo, l’ultimo sfregio con lo spray”. Non c’era la vigilanza. Non c’è sui conti pubblici, figuriamoci su un monumento così irrilevante, in fondo è soltanto il simbolo dell’Italia.

 

17 gennaio. Nel 1945 l’Armata Rossa libera Varsavia.

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