Mi chiamo Lucy Barton

Giorgia Mecca
Elizabeth Strout, Einaudi, 158 pp., 17,50 euro

    Conosco troppo bene il dolore che noi figli ci stringiamo al petto, so che dura per sempre. E che ci procura nostalgie così immani da levarci perfino il pianto. Ce lo teniamo stretto, invece, e lo difendiamo da ogni assalto del cuore: questo è mio, è mio”. Lucy Barton è costretta in un letto d’ospedale in seguito a una complicazione postoperatoria che neanche i medici riescono a spiegarsi. Dopo settimane di paura e solitudine, un giorno la donna sente una voce che le si avvicina: “Ciao, bestiolina”. E’ sua madre, che dopo anni di silenzi è tornata per starle accanto. Dopo aver vinto il premio Pulitzer nel 2009 con il romanzo “Olive Kitteridge” (da cui fu poi tratta una serie tv di successo prodotta dalla Hbo), Elizabeth Strout, nel suo ultimo romanzo racconta il rapporto tra una madre e una figlia che per troppo tempo non hanno avuto il coraggio di dirsi niente. “Ciao bestiolina” le basta sentire quella voce, e a Lucy torna in mente tutto il suo passato, tutto il dolore da cui aveva provato a liberarsi. Nella casa in cui ha vissuto da bambina, ad Amgash, nell’Illinois, non c’era nessun tipo di bellezza su cui posare lo sguardo: “La vostra famiglia fa schifo” le dicevano i suoi compagni di classe, cattivi come i grandi, e avevano ragione. “Quello della solitudine era il primo sapore che avevo assaggiato”. Non se ne sarebbe andato più via; e sarebbero rimasti per sempre anche il rumore preciso del cuore quando si spezza, il pianto che toglie il fiato, suo padre e il suo Vietnam, la paura della paura. Appena aveva potuto Lucy era scappata lontano da casa, ma per fortuna non era servito a nulla. “Ciao bestiolina”. Non finisce mai niente. La mamma trascorre giorno e notte accanto al letto della figlia, senza mai allontanarsi né dormire. Passano il tempo a raccontarsi la vita, le tragedie e i fallimenti di tutti gli altri, senza accennare al loro dolore. Lucy adesso è sposata e madre di due bambine, in quella stanza di ospedale, però, si ricorda di essere prima di tutto una figlia. E che fine hanno fatto allora il quotidiano imbarazzo, tutti i biglietti mai spediti, la sensazione di guardare in faccia il sangue del tuo sangue e non  avere niente da dirgli? Quando era piccola Lucy piangeva sempre; suo padre, senza neanche guardarla negli occhi, le diceva di smetterla, che non c’era proprio niente da piangere. Lei provava a trattenersi ma non ci riusciva, era soltanto una bambina. “Abbi pietà di noi, abbi pietà di tutti noi”, la donna adesso lo ripete spesso. Ha capito anche lei che suo padre non era un uomo cattivo, che nessuno lo è mai per davvero. Dopo cinque giorni trascorsi in ospedale, all’improvviso la madre decide di andarsene e lo fa nello stesso modo in cui era arrivata, senza dire una sola parola. “Mi mancherai”, le sussurra Lucy, “Sì, ti mancherò”. La vita lascia sempre senza fiato. C’era stato bisogno di molto tempo e molto dolore, ma finalmente le due donne avevano capito di  essere ancora una cosa semplice antica: una mamma e una figlia che ricordano di amarsi. Dopo tanti anni, Lucy Barton è una scrittrice famosa che decide di scrivere la sua storia, l’unica che ha a disposizione ed è senza dubbio una storia d’amore. Per raccontarla la donna non ha bisogno di guardare al passato, perché è tutto ancora davanti ai suoi occhi: il furgone in cui da bambina rimaneva chiusa per ore battendo i pugni sul finestrino, il desiderio che qualcuno prima o poi venisse a salvarla, gli attimi di gentilezza che possono procurare solo gli estranei. “Ci sono momenti che cerco di dimenticare, ma non dimenticherò mai”. I figli si ricordano di tutto, i genitori anche, ed è giusto che sia così. 

     

    MI CHIAMO LUCY BARTON
    Elizabeth Strout
    Einaudi, 158 pp., 17,50 euro