La banca e il ghetto

Tommaso Alberini
Giacomo Todeschini
Laterza, 239 pp., 22 euro

    Ebrei, italiani, banche e ghetti. Chi riuscirebbe a incasellarli in un quadrilatero di causa-effetto? Giacomo Todeschini, esperto medievista, ci prova e ci riesce, cercando di sfatare certi pregiudizi storiografici che sanno di antisemitismo, senza per questo cedere alla retorica anticristiana. Per chi sentenzia sulla storia appoggiandosi agli stereotipi europei, i giudei vivono nei ghetti e lavorano nelle banche (le loro banche). Ma che c’entriamo noi italiani? C’entriamo eccome, perché la banca e il ghetto, così come li conosciamo, li abbiamo inventati noi.
    Sono questi i due topoi più ricorrenti, quando si guarda al flusso della storia dalla sponda ebraica. Troppo semplice? Può darsi, eppure il relegarsi (o l’essere relegati) nell’uno e nell’altro luogo è coerente con una certa “diversità” ebraica, rispetto a chi abita le terre non ospitali del loro secolare nomadismo. E’ vero che a lungo il popolo d’Israele fu soprattutto un popolo viaggiatore, transitante da una terra all’altra; un popolo lacerato dall’eterna diaspora a cui fu condannato dagli eventi della storia. Ma è anche vero che, giunto nell’Europa del Basso medioevo, decise di fermarsi, sparpagliandosi su tutto il continente. Agli albori del XIV secolo, gli ebrei in Italia si trovarono a vivere un’eccezione che sembrava caratterizzare solo il regno dei papi e dei prìncipi. La parentela tra scettro e trono, teologica oltre che sovente biologica, faceva sì che l’amministrazione del denaro pubblico fosse ispirata anzitutto a un’etica cristiana, per cui il bonum commune doveva essere lo scopo ultimo della finanza. La morale economica allora dominante era infatti un’etica di stato, che deprecava l’usura ma promuoveva il credito: per la dottrina cattolica le due cose non potevano andare di pari passo.
    La differenza si concepiva nel profilo istituzionale che il banchiere impersonava, in quanto funzionario della res publica: il credito cristiano era l’unico ufficialmente ammesso. Si fondava sul principio della fides, che legava creditori e debitori appartenenti alla stessa comunità politica, ed era perciò la chiave di volta di un’architettura fatta di gerarchie e familismo. L’usuraio, invece, la cui figura è direttamente riconducibile allo stereotipo ebraico, era slegato dal contesto sociale in cui si trovava, ghettizzato ai margini della città, e poteva dunque permettersi di prestare denaro onorando il principio della ricerca del profitto, in base al sistema dei pegni. Chi poneva a garanzia del prestito un bene materiale, lo faceva assumendosi le proprie responsabilità d’individuo possessore: lasciava così la città cristiana e penetrava il ghetto ebraico. Ma queste cose si sapevano e si tolleravano.

     

    Perché allora la classe dirigente italico-cristiana permise l’esistenza di una classe di usurai, seppur relegata nei ghetti? C’è chi sostiene che la disponibilità di credito ebraico sopperisse al bisogno emergenziale che poteva tornare utile a signori e signorotti e che, al contrario, il credito cristiano fideistico, familistico e moralmente informato non poteva soddisfare. Perché? Proprio a causa dell’ostracismo cattolico nei confronti della “orrida etica del profitto”, che gli ebrei sembravano invece abbracciare senza troppe difficoltà. Ipocrisia cristiana e opportunismo ebraico, allora? E’ questa la storia finanziaria del nostro paese? La situazione era un po’ più complessa, ma la storiografia mainstream ama la geometria narrativa offerta dagli stereotipi. Chi trova noioso il perfezionismo di certe simmetrie troverà soddisfazione in questo saggio.


    LA BANCA E IL GHETTO
    Giacomo Todeschini
    Laterza, 239 pp., 22 euro