
Getsemani
Castelvecchi, 64 pp., 9 euro
E scostatosi di poco, cadde con la faccia a terra e pregava dicendo: Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice”. Sono le parole di Gesù nell’Orto degli ulivi. Ma il genio poetico di Charles Péguy sta nella capacità di essere contemporaneo agli eventi che ripercorre, e che interroga con spirito assolutamente moderno. Quasi vedesse più da vicino degli stessi discepoli che erano lì, ma non riuscivano a vegliare, lo scrittore coglie l’abissale questione e la ributta agli uomini del suo secolo: “Se non foste abbrutiti, se non foste anchilosati da intere generazioni di catechismo, chi non sarebbe atterrito da queste poche righe?”. Una tecnica poetica e una capacità di immedesimazione che diventeranno poi il racconto in versi dell’intera Passione contenuto nel Mistero della Carità di Giovanna d’Arco, uno dei testi della letteratura cristiana più belli degli ultimi secoli. In quelle poche righe, l’arte di Péguy coglie il centro di tutto. Cioè che tutta la Storia, quella sacra e quella naturale, quella secolare e quella personale, tutto era pronto per quell’evento, la morte di Cristo. Eppure: “Tutto era pronto, lui solo, solo lui non lo era”. Perché anche Gesù “in faccia alla morte, istantaneamente aveva conosciuto ciò che è la debolezza e l’infermità di ogni carne d’uomo”. Aveva avuto paura: “Che cosa deve essere la morte, ragazzo mio, perché in quel momento egli abbia avuto un’esitazione, perché una esitazione atroce l’abbia fatto per un momento tentennare”. E in quella notte, è l’altra grande intuizione di Péguy, Gesù “ne aveva appena fatta ai discepoli la dolorosa confidenza”. Così, prima di poter dire “sia fatta la tua volontà”, Gesù è costretto a un altro decisivo passo. Dicendo alla fine il suo “fiat voluntas tua”, usa le stesse parole del Padre nostro, è come costretto a re-imparare “come uomo quella preghiera che anche a se stesso, a se stesso come uomo si era insegnato”. Il testo qui presentato in forma autonoma appartiene a un lavoro più lungo di Péguy, il Dialogo della storia e dell’anima carnale, pubblicato postumo nel 1917 (lo scrittore morì nel 1914 alla Marna) col titolo Clio, la musa della Storia. L’eccellente presentazione di Jean Bastaire, uno dei maggiori conoscitori dello scrittore francese e collaboratore di Henri de Lubac, permette di capire anche il preciso contesto, di grande prostrazione, in cui Péguy si accostò alla Passione secondo Matteo nel 1909, due anni dopo la conversione, lui socialista dreyfusardo. Reduce da una grave malattia, con i Cahiers de la Quinzane, la rivista da lui fondata dieci anni prima, sull’orlo del fallimento. Infine tormentato dall’amore nato per una sua collaboratrice, vicenda che vive come un “adulterio del cuore” cui saprà formalmente resistere pur nella difficoltà del rapporto con la moglie che, dopo la sua conversione, viveva come una sorta di “divorzio delle idee”. Questo il suo personale Getsemani, per nulla spirituale, anzi carnalissimo. Ma la condizione che evoca non è solo la sua, è quella che vale per ognuno nel mondo “dopo Cristo senza Cristo” della modernità, “quando nulla maschera più la realtà deludente… in quegli intervalli dell’esistenza in cui non si mente più”. E’ qui che l’antico racconto, rinsecchito dal catechismo e dal calendario (Pasqua è il ponte di primavera, annota) ritrova la sua urgenza, la cronaca, l’oggi: il soldato romano che va ad arrestare Gesù diventa “un bravo Gallo della Gallia belgica, un Fiammingo”. Ciò che seguirà quella notte, “tutto ciò non era che la procedura, la procedura stessa della passione”. L’arresto e il processo, la flagellazione e gli sputi, il tradimento di Pietro e la croce non saranno che “la procedura” d’esecuzione di quel che si era già compiuto. Il Getsemani “fu il tempo che egli si prese, e nella sua stessa obbedienza per un istante vacillò”.
GETSEMANI
Charles Péguy
Castelvecchi, 64 pp., 9 euro
