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lettere al direttore

Referendum sulla giustizia: occhio alla carriera di Meloni a Chigi

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Viene impedito di parlare a Emanuele Fiano, presidente di Sinistra per Israele, da associazioni pro Pal, assemblea per la Palestina e giovani comunisti. Non commento perché i fatti parlano; anch’io penso che la democrazia sia in pericolo. Grazie per il vostro giornale, voce illuminante.
Anna Grattarola Romano

I fascisti pericolosi per la democrazia oggi sono anche questi. Ma all’amico Fiano una domanda andrebbe fatta: perché non chiamarli semplicemente violenti comunisti?

 


 

Al direttore - Dopo Tajani e quel suo “diritto internazionale che vale fino a un certo punto”, nelle ultime ore con una sgommata il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha messo la freccia: “A un certo punto bisogna arrendersi” nel cercare giustizia. In attesa di smentite su interpretazioni maliziose, possiamo dire che siamo in buone mani.
Daniele Mosconi

 


 

Al direttore - Speriamo che il sindaco di Roma Gualtieri non abbia cambiato nome pure a Colle Oppio, altrimenti il governo non saprà più come fare per le prossime nomine. Con i migliori saluti.
Roberto Alatri

   


   

Al direttore - L’insipienza della classe dirigente di Pd e M5s, ben oltre il bene e il male (siamo al confine tra il vuoto pneumatico e la scissione dell’atomo), è confermata dal modo con cui hanno “gestito” la riforma della giustizia e il conseguente referendum. Sono così sprovvisti di senso della realtà da dubitare del fatto, ai miei occhi certo (e non perché abbia chissà quale vista: basta fermare il primo che passa sul marciapiede, non importa se povero o ricco, se vestito bene o male, se di destra o di sinistra, e chiedergli cosa pensa di certa giustizia), che i Sì al referendum sommergeranno i No. Loro pensano ancora a una ridotta valtellinese, si fanno belli di cantarsela e suonarsela ogni giorno dando lettura dell’ipocrita libro dei buoni sentimenti (ovviamente i propri). Sono totalmente privi di senso della realtà. Per di più con l’arroganza di spacciarsi per unici testimoni della Costituzione repubblicana, quando è vero il contrario: che la separazione delle carriere – perché di questo si occuperà il quesito referendario – resa esplicita (secondo, coma usa dirsi, “autorevole dottrina”, anche a Costituzione invariata si sarebbe potuto provvedere al riguardo) dalla riforma costituzionale che nei prossimi giorni sarà approvata in quarta lettura dal Senato, è un presidio all’indipendenza della magistratura dalla politica e della politica (si parva licet) dalla magistratura. Insomma, si fa fatica a capire se è più grave la mancanza di opportunismo (la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica approva “a pelle” o “per sentito dire” il ddl costituzionale, tanto vale cavalcare l’onda), o l’essersi consegnati mani e piedi al giustizialismo d’antan. Sbagliano nel metodo (potevano salire sul carro dei vincitori e invece no: Tafazzi fino in fondo, mi raccomando), sbagliano nel merito (niente è più di sinistra, più socialista, che difendere la libertà dell’individuo dalla giustizia leviatanica e panpenalistica). Zero in strategia, zero in tattica. Aridatece er puzzone? Mai! Ma se la proposta politica della sinistra, alla quale ho sempre appartenuto, è il situazionismo fuori tempo massimo del duo Armocromista-Pochette con contorno rossoverde, per i prossimi lustri mi toccherà sorbirmi la Meloni (prima) a Palazzo Chigi e (dopo) al Quirinale.
Riccardo Rotigliano

 


 

Sostenere la riforma della giustizia è giusto, saggio e doveroso. Ma quando una riforma molto importante finisce nel buco nero di un referendum il rischio è che si passi velocemente da un voto per la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici a un voto per la separazione delle carriere tra Meloni e Palazzo Chigi. Occhio.
Al direttore - Non è stato tenero Ferdinando Casini con il governo Meloni. Intervenendo al Senato, si è lamentato perché la riforma costituzionale della giustizia non ha accolto nessun emendamento proposto dalle Camere, segnalando così il progressivo esautoramento del ruolo del Parlamento. Ha ragione. Solo che esattamente lo stesso accadde, circa dieci anni fa, con il governo Renzi per la riforma costituzionale nota con il suo nome (e anche allora Casini c’era).

Michele Magno