
(Ansa)
Lettere al direttore
La flotilla si preoccupi che gli aiuti non finiscano a Hamas
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Caro Cerasa, ho appena letto il condivisibilissimo editorialino “Israele lasci entrare la flotilla”. E’ vero che i “marinaretti” non possono fare niente di male e che l’intenzione è lodevole, ma è anche provocatoria. Se arrestati, forse imparerebbero a campare. Ultima cosa: ma chi paga per tenere in vita questo circo umanitario? Non è che si scopre, come è accaduto per molte associazioni di volontariato sovvenzionato, che il 90 per cento dei fondi andava alla struttura burocratica e alla bella vita dei leader e solo il resto per gli scopi sociali? Buon lavoro e viva il Foglio!
Pasquale Manzo
La flotilla non fa male a nessuno e, per quanto carica di elementi surreali, ha lo scopo di consegnare cibo, acqua, farmaci e altri aiuti essenziali. Quello che la flotilla forse dovrebbe spiegare è se in questo intento c’è un qualche desiderio di evitare che il cibo, l’acqua, i farmaci, e altri aiuti essenziali vengano gestiti da Hamas oppure no. Nel caso in cui ci fosse questo interesse, suggeriamo di preoccuparsi non solo di rompere il così detto blocco israeliano, nella Striscia, ma anche di preoccuparsi di non far finire i propri carichi tra le stesse braccia che in questi anni hanno gestito gli aiuti umanitari nella Striscia. Parliamo dei terroristi di Hamas, chissà se tra le imbarcazioni della flotilla qualcuno ne ha mai sentito parlare.
Al direttore - Diceva Norberto Bobbio che la mancanza della qualità del fine apre la strada alla bassa cucina dei mezzi (o a mezzi da bassa cucina). A questo proposito, due europarlamentari del Pd, Matteo Ricci e Antonio Decaro, e un europarlamentare del M5s, Pasquale Tridico, si candidano al governo di una regione (rispettivamente, Marche, Puglia e Calabria). Guardandosi bene, ovviamente, dal lasciare Palazzo Louise Weiss. In altri termini: prima mi faccio eleggere a Strasburgo, spesso con dichiarazioni d’amore eterno per l’Europa. Se dopo pochi mesi mi candidano in Italia, faccio professione d’amore eterno per la mia terra. Se non vengo eletto, torno a fare l’espatriato di lusso anziché il capo dell’opposizione locale. Tutto lecito, per carità. Tuttavia, una norma che impedisca di candidarsi a chi è già in una posizione elettiva non in scadenza non sarebbe disprezzabile. Costituirebbe una piccola ma significativa misura di igiene dei costumi (morale deriva dal latino “mos”, costume) dei partiti nazionali. Tanto più di quei partiti che un giorno sì e l’altro pure fanno lezioni di moralità politica.
Michele Magno
Al direttore - Il nuovo ordine, diciamo, mondiale.
Giuseppe De Filippi
Un altro capolavoro di Trump, e dei suoi utili e inutili citrulli al seguito, aver consegnato l’India alla Cina. Make Autocracy Great Again. “Disciamo”.
Al direttore - “E’ morto il riformismo. Viva il riformismo”. Credo sia il caso di ricorrere alla celebre formula regale – quella che accompagna la morte di un sovrano e l’ascesa del legittimo erede – a conclusione della lettura dell’ottimo saggio pubblicato sul Foglio il 1° settembre, “Il riformismo è morto. Cercasi erede”, firmato dallo storico Andrea Graziosi. Con una puntualizzazione tutt’altro che marginale: se nella formula regale prevale la continuità, nel caso del saggio del prof. Graziosi, la similare formula poggia su una forte discontinuità. Nondimeno, il ricorso a quella espressione resta valido anche per l’articolo del professore. Insomma: “Viva il riformismo…” sì, purché nuovo nei contenuti e nelle forme rispetto a quello che abbiamo fin qui conosciuto e sperimentato. Mi spiego. La fine del riformismo, così come descritta nel saggio dello storico, va intesa in senso assoluto? Confesso che, a mio parere, il saggio – pur rigoroso e fecondo – non sancisce la fine del riformismo in sé, in senso assoluto, quanto piuttosto la morte relativa di una sua forma storica: quella che ha accompagnato la sinistra moderata mondiale, in primo luogo in Europa e in Italia, nel secondo Dopoguerra. Costruire un nuovo riformismo per una “sinistra ragionevole” è un compito immane, di lungo periodo e respiro. Non sarà facile, ma – come scrive Graziosi – “la fatica della verità” è il prezzo da pagare per restare liberi.
Alberto Bianchi