Lettere

Avanti con il prossimo festival e la prossima demonizzazione

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Gentile Cerasa, in qualità di consigliere dell’Associazione medica ebraica desidero portare all’attenzione un tema che ci sta particolarmente a cuore. In alcune città italiane sono state segnalate farmacie che hanno deciso di non commercializzare medicinali di aziende israeliane. E’ un fatto che suscita forte preoccupazione in noi perché in contrasto con i princìpi fondamentali di chi opera nella sanità. Un farmaco non può diventare un simbolo politico: per sua natura è, prima di tutto, uno strumento di cura. Il codice deontologico che guida medici e farmacisti è molto chiaro: la salute del paziente deve prevalere su qualsiasi altra considerazione. Escludere un medicinale autorizzato dalle autorità competenti per ragioni estranee alla scienza significa mettere a rischio la continuità delle cure e privare, in particolare anziani e malati cronici, di terapie essenziali. Vi è poi un risvolto economico rilevante. Aziende come Teva, citata nei recenti episodi, non solo producono farmaci generici ampiamente utilizzati, ma garantiscono occupazione a migliaia di persone nel mondo (53 sedi e 35.000 dipendenti), di cui 1.400 lavorano nel nostro paese. Un boicottaggio di questo tipo colpisce quindi anche lavoratori e famiglie italiane. Per queste ragioni, come Associazione medica ebraica abbiamo ritenuto necessario inviare un comunicato alla Federazione degli ordini dei farmacisti italiani, chiedendo un intervento chiaro affinché episodi simili non si verifichino. Una presa di posizione netta degli Ordini può contribuire a ristabilire fiducia e a riaffermare la natura della Farmacia: un presidio di salute, accessibile a tutti e libero da logiche ideologiche. Con stima.

Daniele Radzik, Associazione medica ebraica


 

Al direttore - Diceva Ennio Flaiano che gli “artisti” hanno bisogno di sentirsi in regola, inseriti. Hanno cioè bisogno di mettersi in mostra per sentirsi nella scia dei grandi movimenti dello sdegno collettivo, per dire: noi ci siamo. E il festival del cinema veneziano ha sempre costituito un’occasione irripetibile di civettuola presenza, di protesta e di contestazione. Oggi contro il genocidio dei palestinesi. Ieri contro l’imperialismo yankee che massacrava il Vietnam. Oggi per boicottare Israele, i suoi attori e autori. Ieri (nel 1972)  registi très engagé si dedicavano a colpi di mano e azioni da commandos, per trafugare e trasportare un film antiamericano. In qualche caso mettendo a repentaglio persino i loro yacht personali, poiché tra gli idealisti c’è anche gente affermata, ossequiata, immersa nel più calmo benessere e amareggiata soltanto dal contegno del fisco. E’ la sinistra molto elegante che si compiace di andare verso gli italiani, i quali sono però inamovibili come la montagna di Maometto. E’ tutto molto bello, ma senza allegria. Infatti, quando un popolo dà più artisti che firmano appelli a senso unico – dimenticandosi, ad esempio, di Hamas e di Putin – invece di scienziati, ingegneri e bravi impiegati, c’è poco da ridere.

Michele Magno 


C’è poco da ridere e molto da riflettere. Il nuovo spirito del tempo non si limita a chiedere a Israele conto delle sue azioni, cosa sacrosanta. Ma arriva a trasformare chiunque provi a combattere l’antisemitismo in un complice della tragedia di Gaza. Se non boicotti, sei complice. Se non escludi, sei un carnefice. Se non lo chiami genocidio, sei un nazista. Se non consideri ogni israeliano come responsabile morale di ogni morto a Gaza, sei un terrorista non meno pericoloso di Hamas. Avanti con il prossimo festival e la prossima demonizzazione.



Al direttore - Per i Greci, l’atto di vedere non è mai del tutto innocente. In esso si annida la possibilità della hybris, con il contrappasso tragico che ne deriva. Ne sanno qualcosa Tiresia e Atteone, puniti per aver profanato con lo sguardo – seppure senza volerlo – la nudità di una dea vergine (Atena o Artemide). Ma anche l’essere visti può rivelarsi pericoloso: si pensi allo sguardo pietrificante della Gorgone. C’è poi un’altra fattispecie di hybris collegata allo sguardo e alla sua peccaminosità intrinseca: esporre alla vista chi non dovrebbe esserlo. Candaule, re di Lidia, non ci avrebbe pensato due volte a condividere le immagini della sua sposa discinta, Rodope, con i trentaduemila iscritti al gruppo Facebook “Mia moglie”. Anzi, in qualche modo ne è l’antenato illustre. La storia, fra le più erotiche della letteratura antica, la racconta Erodoto, prima che arrivi Platone a stravolgerla. Non pago di aver sposato una donna bellissima, e di godere in esclusiva delle sue grazie, Candaule pretende che qualcuno la veda nuda. Sente il bisogno di esibirla. Gli occorre un testimone autoptico che fornisca la prova di quella bellezza senza eguali. Altrimenti i malpensanti potrebbero dubitarne. La scelta cade su una guardia del corpo, Gige, che tenta di sottrarsi ma alla fine cede alle insistenze del re. Appostato dietro un battente della porta della camera da letto della regina, Gige la spia mentre si spoglia. Ma la presenza dell’intruso non sfugge a Rodope: che tuttavia non grida, reprime non senza malizia la vergogna. L’indomani convoca Gige e lo mette davanti a quest’alternativa: o uccidi il re, e ti prendi sia me sia il trono, oppure muori, perché hai visto quello che non era lecito vedere. Inutile dire che la fedelissima guardia del corpo sarà il nuovo re di Lidia…

Gennaro Carillo
 

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