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lettere al direttore

Se il Pd è incapace di dire l'unica cosa intelligente sull'Ucraina

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Sono giorni, anzi ore, in cui si decidono le sorti di una nazione, equilibri planetari, futuro delle democrazie liberali, e la sinistra italiana che fa? Lasciamo stare l’ex azzeccagarbugli del popolo che se la prende con “l’Europa guerrafondaia”. Sono le miserie di chi, più che marciare per la pace, sulla pace ci ha sempre marciato. Il Pd, dal canto suo, si distingue per le iniziative di un suo sindaco che nega a Israele un padiglione alla Fiera del Levante di Bari, e di un nutrito gruppo di suoi parlamentari che lo vogliono estromettere dalle competizioni sportive. Non basta. Il mondo brucia, tutto cambia a una velocità impressionante? Ecco che Elly Schlein si attarda in polemicuzze da quattro soldi sulla subalternità di Giorgia Meloni a Trump. Ma la presidente del Consiglio almeno una proposta per sbrogliare la matassa ucraina l’ha fatta, e forse con qualche successo (applicare l’art. 5 della Nato a Kyiv). Da Largo del Nazareno, invece, solo chiacchiere e propaganda elettorale. Del resto, parliamo di un partito che non riunisce la direzione da sei mesi, un arco temporale che ha segnato un passaggio d’epoca. La verità, come era chiaro già dal modo con cui fu scelta la sua leader, è che il Pd è sempre meno un partito politico e sempre più un movimento di opinione. Se vale il detto latino “nomina sunt consequentia rerum” dovrebbe allora chiamarsi Md (Movimento democratico). E’ la stessa sigla di Magistratura democratica, è vero. Ma sarebbe una “coincidentia aequalium”, e quindi a prova di confusione.
Michele Magno

Il Pd non riesce a dire nulla perché l’unica cosa che dovrebbe dire è: cara Meloni, siamo in disaccordo su tutto, o quasi, ma sull’Ucraina, sulla difesa di un paese eroico, sulla difesa del più grande avamposto del mondo contro il nuovo fascismo, non possiamo essere divisi, e faremo tutto il necessario per supportare il governo nel sostegno futuro alla causa dell’Ucraina. E’ l’unica cosa che dovrebbe dire. Tutto il resto è solo chiacchiere, tristezza, imbarazzi e diversivi. 

 


  

Al direttore - La riflessione contenuta nell’editoriale di giovedì centra uno dei mali che più determinano la condizione socio-economica del paese: non siamo più in grado di avanzare nella normalità. Basti pensare che i motori principali delle economie italiane sono stati agganciati a fenomeni straordinari, e ancor prima tragici, che hanno generato flussi di denaro altrettanto straordinari. Il Covid, la guerra in Ucraina, la crisi energetica hanno alimentato per alcuni la sopravvivenza, per altri la sussistenza e per altri ancora l’accelerazione economica. Senza gli eventi straordinari, quindi senza le garanzie di stato, staremmo molto peggio. Retaggio culturale di un paese – e di un un’Europa – da alcuni decenni welfarecentrico, dove dal posto fisso nella P.a. al Reddito di cittadinanza, l’aspirazione dei più è farsi allattare da mamma Italia, fino all’assistenzialismo d’impresa. Del resto le grandi famiglie hanno creato le proprie fortune con l’aiuto materiale dello stato. La domanda è: quando abbiamo smesso di essere un paese ordinario (e ordinato)? Forse, ma qui chiedo il suo aiuto, dopo la prima fase di intervento statale nell’economia nel secondo Dopoguerra, ovvero dopo il boom economico e alla fine degli anni 60. Chi aveva visto i benefici di quei sani interventi nell’economia ha incominciato a organizzarsi per approfittare di strumenti nati per il bene e la crescita del paese e che ora sono diventati una droga da cui siamo dipendenti. Inizialmente era la stortura di pochi, dalla metà degli anni 90 la stortura di molti. Col tempo ci siamo allontanati dallo spirito dei padri costituenti e abbiamo contorto gli strumenti che ci sono stati messi a disposizione. Abbiamo riscritto e sovrascritto le regole e i princìpi su cui l’Italia è nata. Questa riscrittura ha avuto un impatto fondamentale non solo nell’economia ma prima ancora nel sistema di rappresentanza, nel rapporto stato-regioni, nel rapporto fra i tre poteri legislativo-esecutivo-giudiziario. Tutto questo ci ha resi più deboli e mette in pericolo la nostra sovranità. Bisognerebbe approfittare di questi giorni d’estate per tornare a riflettere su quale Italia siamo oggi e da quel punto capire come ripristinare il funzionamento del paese nell’ordinario, riponendo le eccezioni, che servono, dietro il vetro da rompere in caso di emergenza. Come mi ricorda un amico commentando proprio il suo editoriale di ieri, una volta Cossiga in una telefonata al dottor Letta consegnò un prezioso insegnamento: non basta fare, il potere deve anche pensare. 
Fabio Perugia