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Lettere

Schiaffeggiare lo stato di diritto? E' il populismo, bellezza

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Vedrete, il caso di Milano, con l’omicidio commesso da un uomo ammesso al lavoro esterno porterà a un giro di vite sulle misure alternative alla detenzione. Fioccheranno emendamenti e proposte, facile immaginare da quale provenienza. Nel nostro paese funziona così: un caso di cronaca cancella migliaia di percorsi con esito positivo.
Enrico Costa

Dal suo insediamento, purtroppo, il governo Meloni ha introdotto circa sessanta reati e ha aumentato le pena per un totale di circa 500 anni di carcere in più nel nostro ordinamento. Reati introdotti, solo qualche esempio: rivolta in istituto penitenziario, occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui, pubblica intimidazione con uso di armi, inosservanza dell’obbligo di istruzione dei minori, omicidio nautico e lesioni personali nautiche gravi o gravissime, induzione all’accattonaggio, pene inasprite per reati legati alla droga, con aumento della pena massima a 5 anni, per violenza contro personale sanitario e scolastico, per reati ambientali, come incendi boschivi, per reati commessi da minori, in particolare legati a baby gang, per reati di violenza di genere, con l’introduzione del reato autonomo di femminicidio punito con l’ergastolo.  Il punto è sempre lo stesso. Più un fatto di cronaca colpirà il cuore dell’opinione pubblica e più la politica per assecondare l’opinione pubblica metterà mano al codice penale per trovare un elemento di connessione con gli elettori, anche a costo di schiaffeggiare lo stato di diritto. E’ il populismo, bellezza.



Al direttore - Passo in edicola e vedo la copertina dell’ultimo Espresso, “Siamo tutti complici” e foto di Gaza. Un pugno nello stomaco o negli occhi, come si dice in questi casi. Non l’ho ancora letto. Confido ci siano, tra i capi d’accusa di complicità occidentale, anche gli oltre quarantadue miliardi di dollari che abbiamo dato alla Palestina negli ultimi vent’anni, buona base di partenza per costruire poi i 500 chilometri di tunnel di Hamas e altri gadget utili alla causa.
Andrea Minuz

Consiglio per un prossimo titolo: “Free Gaza from Hamas”.



Al direttore - Conosco i riformisti del Pd che hanno fatto l’appello sul referendum, ho stima di tutti loro e posso conoscerne sia la sincerità sia la sofferenza con la quale sono pervenuti a quella decisione. Ma ci sono alcuni elementi politici che la vicenda solleva, e che rimandano alle conseguenze di questo referendum. Pensare infatti di mettere tutto fra parentesi, e immaginare che dopo l’8 giugno tutto torni come prima, appare un ragionamento miope. Non mi interessano qui i retroscena sulla volontà di Schlein di allineare tutto il partito, utilizzare il referendum per ribadire una ortodossia radicale e per convocare il congresso. Questi sono aspetti che riguardano il Pd. Ma ci sono altri aspetti, per così dire “sistemici” che il referendum sul lavoro inevitabilmente invoca. Del resto, è sempre stato così. Nel 1985 la sconfitta del Pci nel referendum sulla scala mobile – contro le previsioni dell’epoca – finì per accelerarne la crisi, e marcò il sostanziale isolamento della Cgil che fratturò l’unità sindacale che aveva contraddistinto tutti gli anni 70. Nel 2003, il fallimento del referendum promosso da Rifondazione comunista e dalla Cgil sull’estensione dell’articolo 18 impedì alla sinistra radicale di conquistare l’egemonia della nascente Unione, e riaprì le porte al ritorno di Romano Prodi e di una leadership riformista a sinistra che tre anni dopo sconfiggerà Berlusconi. Se dovesse vincere il Sì, esso cristallizzerebbe una leadership di centrosinistra imperniata su posizioni marcatamente radicali, aprendo la strada in Italia per un modello gauchista  già visto recentemente all’opera in Francia col cartello del Nuovo fronte popolare, dagli esiti noti. Mentre in caso di sconfitta, si aprirebbe una riflessione di fondo sul reale profilo politico di un centrosinistra competitivo davvero. Quello che appare evidente è che in ogni caso, tenere insieme sotto un unico ombrello partitico i “riformisti” con i “radicali” diventerebbe sempre più un esercizio funambolico, mentre più proficuamente ciò potrebbe articolarsi in una alleanza di coalizione.  Per questo il tentativo degli amici riformisti del Pd, per quanto nobile, è destinato a essere politicamente sterile. Perché la politica non si fa con la testimonianza, ma con l’azione. E’ per questo che rilanciamo – a loro come a tutti coloro che si sentono sinceramente riformisti – il nostro appello a lavorare con noi per una nuova “tenda dei riformisti” che partendo dalla constatazione dell’evoluzione del quadro politico sappia ricostruire la ragioni di un’area e uno spazio politico di riformismo innovatore, modernizzatore e moderno che quando seppe esprimersi al meglio realizzò le migliori stagioni del centrosinistra italiano e della crescita del nostro paese.
Enrico Borghi, vicepresidente Iv