Da gialloverde a gialloblù: la felice transizione geopolitica italiana

Le lettere al direttore del 24 marzo 2022

Al direttore - La strenua resistenza di pochi ardimentosi oggi contro lo strapotere del pensiero unico antiputinista e guerrafondaio ricorda tanto i bei tempi in cui pochi coraggiosi combattevano con identico coraggio un’altra dittatura italiana, quella della cancel culture. E sorge spontanea la domanda: ma si otterranno più “ospitate” e si pubblicheranno più libri e si svolteranno più collaborazioni lottando contro la prima o la seconda? Con i migliori auguri.
Michele Masneri


  
Al direttore - Tariffario Cartabianca: 2.000 euro a puntata per posizione filo Putin, 1.500 per “la guerra è colpa della Nato”, 1.000 euro per l’equidistanza o la “complessità”, 500 per pacifismo radicale purché esposto con rabbia, 5 ticket restaurant a chi sta con l’Ucraina.
Andrea Minuz


   
Al direttore - Chi è Putin? Qual è stata la sua formazione intellettuale? Da quale mondo politico proviene? Nato nel 1952, aveva vent’anni nel 1972, nell’Unione sovietica di Leonid Breznev. Di quel Breznev che aveva enunciato la dottrina della “sovranità limitata”: cioè il diritto dell’Unione sovietica di richiamare all’ordine quei paesi, situati nel suo impero, che volessero adottare provvedimenti o riforme sgraditi a Mosca. Di qui l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968, per stroncarvi la “primavera di Praga”. La carriera di Putin si è svolta nella Russia di Breznev. Qui egli diventò un alto funzionario del Kgb, l’onnipotente organismo segreto che doveva vigilare sulla sicurezza dello stato, ed ebbe ruoli importanti nel sovrintendere alla fedeltà all’Urss dei paesi satelliti (a tal fine fu dislocato per vari anni nella cosiddetta Repubblica democratica tedesca). A Breznev Putin deve la sua carriera, la sua fortuna. Ma la Russia di Breznev era la Russia quale era stata formata e plasmata da Stalin (e infatti egli mise la sordina a tutte le denunce contro Stalin e lo stalinismo fatte da Krusciov). Il quale Stalin non aveva esitato a proclamare la continuità fra la Russia sovietica e la Russia zarista. Parlando sulla Piazza Rossa il 7 novembre 1941, nel momento in cui le armate naziste minacciavano Mosca, Stalin disse: “Possa ispirarvi in questa guerra il glorioso esempio dei nostri antenati, Aleksander Nevskij, Dimitri Donskoij, Kusma Minin, Dimitri Pojarskij, Alexander Suvorov, Michajl Kutuzov”. E il giorno della capitolazione del Giappone Stalin indirizzò un messaggio al popolo sovietico, nel quale diceva: “Abbiamo aspettato questo giorno per quarant’anni…”. Si badi: per quarant’anni: Stalin alludeva, ovviamente, alla rivincita sulla sconfitta zarista nella guerra russo-giapponese, sconfitta che portò alla rivoluzione del 1905, salutata da tutti i rivoluzionari russi come una vittoria. In questo modo Stalin travasava interamente il passato della Russia zarista nel presente dell’Unione sovietica. Putin si è formato in questo humus, in questa tradizione politica, che ha sempre individuato i propri nemici mortali nei princìpi dell’Illuminismo (che la Russia non ha mai conosciuto), nelle libertà civili e politiche, nella democrazia liberale. Come meravigliarsi allora che il nuovo zar non tolleri l’indipendenza dell’Ucraina, di un paese, per di più, democratico (nell’accezione occidentale di questa parola)?
Giuseppe Bedeschi

 

Il problema non è Putin, che ha sempre spiegato cosa voleva fare, che ha sempre esplicitato la sua volontà di combattere non solo metaforicamente contro le democrazie liberali, il problema siamo anche noi, che glielo abbiamo concesso, che non lo abbiamo capito, che non gli abbiamo creduto, che non lo abbiamo ostacolato, che non lo abbiamo sanzionato come avrebbe meritato e che non gli abbiamo reso la vita impossibile come sarebbe stato giusto fare. Togliere il fiato oggi a Putin è un dovere dell’occidente. Ma dovrebbe essere anche un dovere, un domani, sanzionare politicamente chi ha tentato in tutti i modi di indebolire le istituzioni democratiche che oggi cercano di opporsi a Putin. Ricordarselo alle elezioni, please.


 

Al direttore - Il problema non è che sono usciti dal Parlamento per non ascoltare Zelensky. Il problema è che ci rientreranno.
Michele Magno

  

Eppure, caro Magno, non riesco a non rallegrarmi. Un Parlamento nato per portare l’Italia un po’ più vicino a Mosca e un po’ più lontano da Bruxelles oggi è schierato in massa per evitare che Mosca possa estendere la sua egemonia all’interno dell’Europa. In quattro anni siamo passati dal governo gialloverde, inteso come i colori di Lega e M5s, al governo gialloblu, inteso come i colori dell’Ucraina. Non è poco.