Draghi ha fotografato la realtà che D'Alema finge di ignorare

Le lettere del 5 gennaio al direttore Claudio Cerasa

Al direttore -  “L’idea che il premier si autoelegge capo dello stato e nomina al suo posto un alto funzionario del ministero dell’Economia  mi pare non adeguata per un grande paese democratico come l’Italia, con tutto il rispetto per le persone”. Così parlò Massimo D’Alema. Certo che  Giuseppe Conte, l’avvocato del popolo,  dal popolo e per il popolo, quanto ad adeguatezza, non lo batteva nessuno. Anzi, se fosse dipeso dal líder máximo, Conte sarebbe, adeguatamente, alla guida del suo terzo governo, magari sostenuto da una maggioranza parlamentare differente da ciascuna delle prime due. Poi dicono che uno si butta a sinistra!
Giuliano Cazzola 

Il problema mi pare un altro. Nella grammatica dalemiana, la democrazia rappresentativa funziona solo nei casi in cui D’Alema siede in Parlamento. E in ogni caso, Draghi, come sa bene D’Alema, non si è autoeletto a capo dello stato, ma ha detto in modo implicito che una maggioranza che si  spacca sul Quirinale  difficilmente  poi si potrebbe ricomporre su Palazzo Chigi. Che più che una minaccia pare essere semplicemente la fotografia di una realtà che D’Alema finge di ignorare: la stabilità dell’Italia, come ha riconosciuto in una certa misura anche Angelo Panebianco ieri sul Corriere, passa dall’avere Draghi al Quirinale. I capi di governo, come sa D’Alema, vanno e vengono, e quando vanno, come sa D’Alema, soffrono molto quei premier che non hanno il numero di telefono di alcuni ex premier nella propria agenda personale e che non consultano, come succedeva fino a qualche mese fa, alcuni ex premier quando, diciamo, si tratta di fare qualche nomina speciale.


 

Al direttore - Per uscire dalla pandemia dobbiamo smettere di scavare un solco tra “noi” (i Pro vax, quelli che stanno dalla parte della scienza) e “loro” (i No vax, i negazionisti, quelli che in “Don’t Look Up” rispondono al sondaggio scegliendo l’opzione “Non vogliamo la cometa”). Loro ci sembrano pazzi, noi ci sentiamo alfieri della verità. E se invece riconoscessimo che anche noi non “sappiamo” ma semplicemente “crediamo” alle istituzioni (la scienza e le sue organizzazioni, la politica e le sue organizzazioni)? Lo spiegava bene Daniel Kahneman (lo psicologo premio Nobel per l’Economia nel 2002) in una intervista al Guardian lo scorso maggio: “Per certi aspetti la mia fede nella scienza non è molto differente dalla fede religiosa di altre persone […] Mi spiego: io credo nel cambiamento climatico ma non ho idea di che cosa sia effettivamente. Credo però nelle istituzioni e nel metodo delle persone che mi dicono che il cambiamento climatico è in atto. Non dovremmo pensare che siccome non siamo religiosi allora siamo più intelligenti di chi crede”.
I ricercatori e gli scienziati “conoscono” il virus e i medici la malattia perché ne fanno esperienza diretta nei laboratori e negli ospedali. Noi cittadini (commentatori, giornalisti, politici…) ne leggiamo, ne sentiamo parlare. Se conoscenza è esperienza, il nostro sapere è soltanto indiretto. E’ mediato da persone che “sanno” e nelle quali abbiamo deciso di credere. La dignità di questo nostro atto intenzionale non è diversa da chi crede a Luc Montagnier. Anzi: il fatto stesso che esista una etichetta per definire un gruppo eterogeneo di persone (e il senso di accerchiamento che ne consegue) ne consolida il senso di sé individuale e l’identità collettiva. A un punto così profondo da divenire fondamento sacro del martirio. Come potremmo spiegare altrimenti la rinuncia alle cure raccontata per esempio da Sergio Harari sul Corriere di lunedì? La storia delle scienze sociali ci ha insegnato che ogni qualvolta un comportamento ci sembra non razionale, allora dobbiamo cercare il difetto del nostro concetto di comportamento razionale.
Se partiamo da qui, dalla consapevolezza che l’atteggiamento di tutti noi – Pro vax e No vax – dipende da un atto di fede in persone e istituzioni allora possiamo cominciare a metterci concretamente alla ricerca della soluzione a una divaricazione sociale lacerante.

Roberto Basso

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