La sinistra ossessionata dal passato. Idee di Bugno per Milano

Le lettere al direttore del 4 settembre 2021

Al direttore - Milano-Bad Godesberg due giri di Rolex.
Giuseppe De Filippi 

 


 

Al direttore - Nei giorni scorsi il Foglio ha pubblicato un lungo articolo di Nicola Zingaretti. L’ex segretario dem ha rivendicato, giustamente, il ruolo svolto dal suo partito negli ultimi anni. Immagino che anche lei, caro Cerasa, si sarà accorto che, nella rievocazione dei meriti, Zingaretti ha saltato completamente l’attività del Pd per una intera legislatura – la XVII – e di ben tre governi a guida dem. Nel testo non si fa alcun riferimento alle politiche del lavoro dell’esecutivo presieduto da Matteo Renzi (riforma dei contratti a termine e Jobs Act), né al pacchetto Ape grazie al quale il governo Gentiloni riuscì a difendere la riforma Fornero delle pensioni dagli attacchi di cui è divenuta oggetto nell’attuale legislatura. Crede che si tratti di una banale dimenticanza? Io no.
Giuliano Cazzola

E’ un’omissione, certo, ma in politica contano anche gli atti e per quanto il Pd possa essere oggi molto diviso è difficile trovare qualcuno nel partito disposto a negare una verità difficile da nascondere: il Jobs Act è stato utile, il pacchetto Ape è stato prezioso, la legge Fornero ha messo in sicurezza il paese e una sinistra desiderosa di avere un futuro ha il dovere di smetterla di fare quello in cui si è specializzata per troppo tempo: impegnarsi a cancellare il passato. 

 


 

Al direttore - Che una rondine non faccia primavera è vero non solo in questi tempi di cambiamenti climatici cosiddetti; lo è ancor di più se la primavera in questione è quella della chiesa, per usare la celebre formula di Paolo VI, a indicare una stagione di rinnovato slancio spirituale e di fede. La rondine in questo caso è un sondaggio, uscito nei giorni scorsi su Repubblica incidentalmente a ridosso dei rumors e dei retroscena sulle possibili dimissioni del Pontefice regnante per motivi di salute. Stando ai risultati dell’indagine, la sua popolarità “appare in sensibile ripresa negli ultimi due anni”, con 3 italiani su 4 che esprimono fiducia nei suoi confronti, ciò che rappresenta “il dato più alto registrato dal 2017”, nonché un consenso “molto più elevato rispetto a quello verso la chiesa”. Anche per questo, si legge, le dimissioni del Papa sarebbero “poco ragionevoli”. Detto altrimenti, ma davvero proprio ora che la popolarità, la fiducia e il consenso nei confronti del Papa è in rialzo, qualcuno può pensare che si dimetta? Ma, appunto, una rondine non fa primavera. Intanto va detto che questa cosa di voler tastare il polso del popolo, ancorché di Dio, sondandone gli umori nei confronti del Pontefice, manco stessimo parlando di un partito e del suo leader, lascia il tempo che trova, posto che la chiesa ha una natura sacramentale e non democratica. Secondo, e cosa più importante: come ha ben documentato sabato scorso Matteo Matzuzzi su queste colonne (“Il pontificato della discordia”), a distanza di otto anni e mezzo il dato di fatto indiscutibile è che rispetto a quelle che erano le attese e le parole d’ordine di una stagione che si preannunciava rivoluzionaria, la chiesa cui ci si trova di fronte è una chiesa divisa, confusa e scossa da fibrillazioni potenzialmente esplosive. Si voleva una chiesa in uscita, il risultato è l’uscita dalla chiesa, certificata dalla continua emorragia di fedeli, eccetera; ma anche l’uscita della chiesa dalla società, nel senso di una sempre minore incidenza nella vita pubblica. Poi, certo, sullo sfondo c’è sempre la famosa “profezia” dell’allora (1969) giovane teologo Ratzinger, quella in cui non a caso il futuro Pontefice parlava di una chiesa che avrebbe perso molto, che sarebbe diventata piccola e che avrebbe dovuto ripartire dagli inizi. Forse ci siamo. E se è così, tanto l’attuale pontificato quanto (e soprattutto) la renuntiatio di Benedetto XVI andrebbero inquadrati in tutt’altra prospettiva.
Luca Del Pozzo

 


  
Al direttore - Vorrei chiarire il mio punto di vista sulle piste ciclabili di Milano per sgomberare il campo da polemiche, come quella sulla ciclabile di corso Buenos Aires, e ribadire che lo spirito con cui mi candido al Consiglio comunale di Milano per I riformisti a sostegno di Beppe Sala è proprio quello di sostenere la sua sfida in favore della mobilità cittadina in bicicletta, che è ormai diventata una consuetudine. Come consuetudine dovrebbe diventare il comparto sportivo in generale perché sport vuol dire benessere, passione collettiva e vitalità urbana. Già prima della pandemia la cosidetta “green mobility” stava vivendo una crescita importante, che il lockdown ha accelerato e che ora viene imposta dall’impegno europeo di rilancio dell’economia in chiave di sostenibilità. Nell’immaginario collettivo il ciclista è lo sportivo, ma non è così: ciclista è qualunque persona che si sposta con una bicicletta, per lavoro o per svago, e va tutelata e rispettata esattamente come un pedone o un automobilista. Ha diritti e doveri. Tutto questo come può avvenire a Milano? Innanzi tutto, prendendo atto della realtà. Il problema più grande è la mancanza di spazio sulle strade: se il codice della strada dice che per superare una bicicletta in sicurezza ci deve essere una distanza di 1,5 metri, non è pensabile che sulla stessa strada ci siano marciapiede, ciclabile, parcheggi e corsia per automobili. Ecco allora i difetti di alcuni esperimenti e il fatto che per interventi davvero efficaci si debbano fissare delle priorità è anche fare scelte radicali. Se vogliamo che Milano diventi come le grandi capitali europee, bisogna pensare a ottimizzare gli spazi esistenti, rilocando i parcheggi in strutture apposite come silos e garage sotterranei e disciplinando la nuova mobilità. Dobbiamo tutti compiere uno sforzo corale per rinunciare a modelli comportamentali e abitudini sociali che non avremmo mai nemmeno pensato di mettere in discussione prima della pandemia.
Gianni Bugno