Foto Francesco Ammendola/Ufficio Stampa Quirinale/LaPresse

Lettere

L'eresia della durata del processo proporzionale alla gravità del reato

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Il confronto in corso tra il governo e i Cinque stelle sulla prescrizione merita di essere citato a esempio di come talvolta la politica si perda in inutili polemiche dimenticando la realtà dei fatti. Sembra, infatti, che i Cinque stelle siano gli unici a voler combattere mafia e terrorismo senza lasciare nulla di impunito, mentre chi si oppone alle loro richieste sia affetto da “buonismo” mettendo a rischio la sicurezza del paese. La durata della prescrizione, per i reati di mafia, è, secondo la regola generale, pari al massimo della pena edittale stabilita dalla legge, e quindi, per i procuratori, i dirigenti e gli organizzatori, è di anni diciotto. Altra regola generale è che una serie di atti processuali (interrogatorio, misure cautelari, sentenze, ecc.) interrompono la prescrizione, che ricomincia a decorrere dal giorno dell’interruzione: sennonché, l’aumento non può essere superiore di un quarto del tempo necessario a prescrivere. Parrebbe, perciò, che i reati di mafia si prescrivano in 22 anni e mezzo (il che, per celebrare un processo, non sarebbe poca cosa). Ma non è così: l’art. 161 del codice penale stabilisce che questo calcolo non si applica, tra gli altri, ai reati di mafia (e di terrorismo). Ciò fa sì che ogni atto interruttivo fa decorrere nuovamente un tempo pari al massimo della pena, e cioè diciotto anni. La prescrizione, perciò, sarà diciotto anni + diciotto anni, ecc. Perché un reato di mafia si prescriva dovrebbero decorrere diciotto anni dall’ultimo atto interruttivo senza che intervenga uno di quegli atti che fanno nuovamente decorrere la prescrizione da zero. E’ una discussione sul nulla, una finzione escogitata per far dire al governo che è aperto alle richieste della maggioranza, e ai Cinque stelle che è vincente nel confronto con il governo. Un po’ più di verità farebbe bene a questo paese che è preda del caos politico, e, ancor più gravemente, di un nuovo oscurantismo. C’è da domandarsi, invece, come mai manchi l’onestà intellettuale di denunciare che l’improcedibilità (apparentemente al posto della prescrizione) sia un non senso giuridico: che ne è del reato che continua a sussistere? Che ne è della sentenza che non può annullarsi, perché legittima? Che ne è delle altre misure adottate, come i sequestri o le confische? Si resterà condannati in eterno, visto che reato e sentenza non sono toccati dalla “improcedibilità”? Queste sono le questioni di cui si dovrebbe parlare, e di cui nessuno parla, perché sono domande senza risposta.
Gaetano Pecorella

 

C’è un’altra finzione pericolosa nel dibattito pubblico, quando si parla di giustizia, ed è una finzione che in pochi hanno la forza di combattere. Questa finzione, ricordata ieri dal nostro amico Giancarlo Loquenzi, coincide con una tesi perversa: l’idea che la durata del processo debba essere proporzionale alla gravità del reato. Un’idea coerente con la dottrina professata da chi pensa che il processo debba essere già una pena, ma un’idea semplicemente raccapricciante per chi abbia un minimo a cuore lo stato di diritto e il rispetto della Costituzione, strapazzata dagli stessi che la ritenevano la più bella del mondo.

 

Al direttore - Povero Marco Travaglio. Più che criticarlo per le sue affermazioni su Mario Draghi – nel contesto della fumeria d’oppio di Leu  – bisogna compatirlo. Il suo è il rancore folle di uno che si è accorto di essere sconfitto su tutta la linea mentre pregustava ancora la vittoria del 2018. A farla fuori dal vaso è stato il suo sodale Gad Lerner, il quale avrebbe potuto solidarizzare con Travaglio in tanti modi, magari tirando in ballo, come hanno fatto altri, il diritto di esprimere – sia pure in modo sgarbato – la propria opinione. Ha scelto invece di coprirsi di ridicolo, negando a Draghi  quelle competenze che gli riconoscono in tutto il mondo.
Giuliano Cazzola

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