(foto Ansa)

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I giudici che parlano troppo con i giornalisti. Cosa frena il modello Ursula

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Caso Gregoretti: è normale che dei magistrati uscendo da Palazzo Chigi, a indagini in corso, rilascino dichiarazioni ai giornalisti?
Marco Marini 

 

Sottoscrivo quanto detto ieri da Alfredo Bazoli, bravo deputato del Pd: “Un giudice dell’udienza preliminare che, dopo aver ascoltato un testimone, si ferma a commentare e valutare l’udienza con i giornalisti, è una cosa semplicemente inaccettabile. A maggior ragione se il teste è il presidente del Consiglio e l’imputato un ex ministro”.


 

Al direttore - La Giornata della memoria che si celebra in questi giorni è un’occasione privilegiata non solo per ricordare, non lo si farà mai abbastanza, gli orrori della Shoah, ma anche per tornare a riflettere su quel fenomeno politico che nel secolo scorso ha insanguinato il mondo intero: il totalitarismo. Se il “secolo delle idee assassine”, come è stato giustamente definito, una lezione ci ha lasciato, è questa: alla negazione di Dio (ciò che ha accomunato nazismo e comunismo pur nella diversità del metodo e della teoria politica) consegue necessariamente la morte dell’uomo, della sua dignità, del suo essere persona. “Se Dio non c’è, tutto è possibile”, diceva Dostoevskij. Laddove si è tentato di estirpare Dio dalla faccia della terra, per costruire il mondo nuovo, un mondo solo “umano”, tutto si è rivolto contro l’uomo. Per questo è importante non abbassare mai la guardia, anche guardando ai totalitarismi tuttora vivi e vegeti in tante parti del mondo. Tornando alla Shoah, c’è una domanda che un evento come la Giornata della memoria necessariamente pone: con quali categorie va interpretato Auschwitz dagli ebrei di oggi? Se si confronta la letteratura ebraica dopo la Shoah, con quella prodotta in seno all’ebraismo durante e dopo l’esilio babilonese, il dato che emerge è che mentre la seconda rappresenta una vera e propria teologia della storia confluita, per altro, nel canone delle Sacre Scritture, nella prima, al contrario, a stento si trova traccia di quella fede che pervade i testi dell’esilio. Valgono queste intense e dolorosissime parole tratte da “La Notte”, capolavoro autobiografico dello scrittore e premio Nobel per la Pace Elie Wiesel: “Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai”. Parole da cui emerge in tutta la sua forza il dramma di un popolo intero, che nella Shoah ha toccato il culmine di una storia di persecuzione (tranne qualche parentesi). Storia “misteriosa”, nel senso teologico del termine, cioè di un disegno che Dio solo conosce. Storia che con Auschwitz sembra non lasciare più spazio alla fede. E forse non è un caso se duemila anni fa un altro ebreo, l’ebreo Gesù di Nazareth pose la più sconcertante e inattesa delle domande: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. Eppure, è proprio alla luce della fede, anzi solo ponendosi in un’ottica di fede, che anche l’orrore di Auschwitz, come la croce stessa di Cristo e come ogni croce, può acquistare un senso. Per questo occorre tornare alle origini, a quel Dio che ha eletto e mai ripudiato Israele, non solo per “comprendere” Auschwitz ma anche per riallacciare quell’alleanza al di fuori della quale Israele ha sempre sofferto.
Luca Del Pozzo


 

Al direttore - Vorrei partire dal suo stimolante editoriale “La risurrezione del patto del Nazareno” per fare alcune considerazioni. La situazione del paese all’inizio del 2021 è per certi versi simile  ma peggiore in prospettiva (causa Covid), a quella della fine del 2011 dieci anni prima (già questo la dice lunga). Allora il deficit e il debito pubblici erano pari rispettivamente al 3,9 e al 120 per cento del pil, oggi viaggiano al 7-8 e al 158 per cento del pil. Allora il conto commerciale con l’estero era lievemente negativo, oggi è in forte avanzo (gli italiani risparmiano più di quanto consumano e questo non è bene). Lo spread nel 2011 era alto, oggi è ai minimi grazie alla Bce. Il prodotto cresceva di mezzo punto, nel 2020 è crollato quasi del 10 per cento. Anche dal punto di vista politico vi sono analogie. Allora il premier Berlusconi era bersaglio di un attacco concentrico dall’interno e dall’estero mentre il quadro macroeconomico si deteriorava. E ciò faceva sembrare che la sua permanenza a Palazzo Chigi fosse “il” problema. Oggi anche il premier Conte è per alcuni aspetti un punto di equilibrio per altri un inciampo. E allora leggendo il suo editoriale mi domando (ma è la domanda giusta?) se non sia troppo chiedere a Giuseppe Conte di farsi da parte, così come fece Berlusconi nel 2011, in modo da permettere appieno la vittoria postuma del patto del Nazareno.
Marco Cecchini 

 

La sua domanda è corretta e la risposta è doppia: un patto del Nazareno (patto per le riforme) potrebbe nascere anche con Conte alla guida di un altro governo (aiutato oltre che da Renzi anche da qualche altro senatore di Forza Italia); ma se Forza Italia avesse invece intenzione di far nascere una maggioranza diversa (modello Ursula) allora lì sì che il nome di Conte diventerebbe un ostacolo per quella prospettiva. Ma la verità è che questo scenario è precluso per una ragione evidente: Salvini ha promesso che in caso di elezioni anticipate il centrodestra punterebbe su Berlusconi come prossimo presidente della Repubblica e fino a che Berlusconi crederà a questa promessa non ci sarà purtroppo alcuno scongelamento possibile nel centrodestra.

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