Crisi e capitomboli. Un ricordo di Emanuele Macaluso firmato dal vicesegretario del Pd, Andrea Orlando

Le lettere del 21 gennaio al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Comodo festeggiare se non devi aspettare Nencini.
Giuseppe De Filippi

 


Al direttore - Caro Cerasa, a lei risulta che sulle  spiagge dorate  della Versilia, di fronte all’azzurro del Mar Tirreno, vi sia un Papeete, frequentato da Matteo Renzi in vacanza?
Giuliano Cazzola


Aspetterei qualche mese, e aspetterei di capire se la maggioranza riuscirà a trovare davvero una gamba in più per camminare e non solo per stare in piedi, prima di dare Renzi per pensionato. 



Al direttore - Mi pare di capire, dopo aver ascoltato le domande che ha rivolto martedì sera a Bersani da Giovanni Floris, che la posizione della sinistra italiana oggi sia così riassumibile: dopo aver provato per anni a smacchiare il giaguaro, oggi, pur di non tornare con Renzi, è preferibile anche dare un bacio al giaguaro. Niente male, no?
Luca Martini


Ci sono molti elementi spassosi in questa crisi di governo che può far sorridere anche se per alcuni aspetti dovrebbe far piangere (pensare di vivere in una stagione di Vietnam parlamentare quando tra novanta giorni l’Italia dovrà consegnare il suo Recovery plan è pensare di vivere su Marte). Primo elemento spassoso: vedere i grillini chiamare “costruttori” i parlamentari che un tempo chiamavano “voltagabbana”, vedere la Travaglio Associati rimproverare il Pd per non aver dedicato troppe energie in quello che un tempo la Travaglio Associati avrebbe chiamato il “mercato delle vacche” e vedere ex parlamentari del Pdl (da Meloni a La Russa) indignarsi per “il mercato delle vacche” dopo aver fatto nel 2010 i ministri grazie agli ottimi voti di Scilipoti. Il secondo elemento spassoso ha a che fare con la sinistra in cui si riconosce Bersani: nel 2013 Bersani si dimise da segretario del Pd per non fare un governo con Berlusconi, e nel 2021 pur di non fare più un governo con Renzi sarebbe disposto a fare un governo anche con Berlusconi; nel 2010 chiese a Berlusconi le dimissioni da premier per aver fatto una maggioranza raccogliticcia con Scilipoti; oggi si augura di poter governare con Berlusconi insieme ai nuovi splendidi Scilipoti. La politica, che bellezza.



Al direttore - Non so dire da quanti anni esattamente conoscessi Macaluso ma mi sono accorto ieri mattina, alla notizia della sua morte, che la sua figura è stata tutt’uno con la mia formazione politica. E credo che questo pensiero sia stato di molti. Emanuele apparteneva a una generazione che riteneva che l’azione pedagogica, anche esercitata con una certa rudezza fosse conseguenza naturale dell’impegno politico. Tra noi militanti degli anni 80 era noto come riferimento, quando il partito “dava la linea”, come Em.Ma. la firma con la quale siglava i corsivi vibranti da direttore dell’Unità, il giornale che ogni domenica “diffondevamo” nei palazzi del mio quartiere. Ma su quelle colonne parlava a nome di tutto il partito, anche se si iniziava già a cogliere nelle sue parole l’irrequietezza per una “linea” che non riusciva a rompere l’isolamento in cui il Pci era finito dopo la fine della solidarietà nazionale. Così non fu un fulmine a ciel sereno il suo protagonismo tra il 17° e il 18° congresso del Pci, rispettivamente il primo dopo la morte di Berlinguer e l’ultimo prima della Bolognina, con il quale, contestando nei fatti la proposta del governo di programma prima e la prospettiva abbastanza fumosa del “nuovo Pci” poi, proponeva la ricostruzione di un asse con il Psi nel nome dell’unità delle forze di sinistra. Era il Psi di Craxi, e il ricordo del referendum sulla scala mobile e dei fischi a Berlinguer al congresso del Psi di Verona era ancora vivo. Ci voleva perciò coraggio, nettezza e autorevolezza per sfidare la reticenza con la quale il gruppo dirigente dell’epoca tentava di esorcizzare il sostanziale isolamento del Pci e la contraddizione tra l’adesione alla sinistra europea di cui si diceva “parte integrante” e la rottura a sinistra a livello nazionale. E a Emanuele non mancava nessuna di queste cose e tanto meno il gusto per la battaglia politica. Le aveva costruite e forgiate nella sua Sicilia prima nella clandestinità antifascista aderendo giovanissimo al Pci, poi nella lotta contro il feudo e la mafia agraria che aveva sfidato da dirigente sindacale e politico in anni nei quali si sparava su chi rivendicava i propri diritti. Emanuele era molto legato ad Aldo Giacché, senatore spezzino e mio primo riferimento politico. Fu tramite lui che lo conobbi alla formazione “alla luce del sole” della corrente riformista del Pci prima e del neonato Pds poi. In un’area politica che faceva dell’esecrazione del propagandismo un tratto distintivo (“hai fatto un intervento di propaganda” era il peggior stigma possibile per la presa di posizione di un esponente politico) Emanuele si sforzava sempre di mantenere un nesso con il sentimento popolare, non dava per scontato (e avremmo verificato in seguito quanta ragione avesse) il rapporto tra sinistra e mondo del lavoro. 


Per lui l’aggettivo socialista non era una via per “normalizzare” la tradizione del Pci ma un modo per continuare a dare un riferimento alle forze sociali, ai bisogni e alle speranze di cui il Pci era stato interprete nella costruzione della democrazia. Per questo fu critico per l’impianto “azionista” della svolta di Occhetto. E per questo non aderì mai al Pd. Lo definì un partito ambiguo perché riteneva irrisolto il suo rapporto con la sinistra e la sua storia che per lui era, appunto, mondo del lavoro e lotta alle diseguaglianze e quindi capacità di incanalare nella democrazia il conflitto. Di conseguenza il suo approdo fu diverso da quello di altri “miglioristi” che si collocarono progressivamente in un orizzonte liberaldemocratico. Questo non significò però mai cedere all’economicismo che pure talvolta segnò la destra comunista. La sua attenzione per le battaglie civili che modernizzarono il nostro paese tra gli anni 70 e 80 non fu quella di uno spettatore. La sua antica amicizia con Leonardo Sciascia, come ci ha raccontato in un bellissimo libro, è stata per tutto il corso della sua vita, prima e dopo la morte dello scrittore suo conterraneo, una spinta costante alla ricerca della libertà e al rifiuto di ogni conformismo dogmatico. Nel 2010 su questo giornale proposi una traccia per alcuni interventi di riforma della giustizia contro i quali insorsero molti giustizialisti dentro e fuori il Pd. La sua telefonata di incoraggiamento fu la prima del giorno. Da allora sui temi della giustizia non ci fu passaggio significativo senza un confronto con lui, anche negli anni trascorsi a Via Arenula. Non solo conosceva la giustizia e le sue dinamiche ma era in grado di decifrare i nodi politici che stavano dietro a fatti apparentemente tecnici. 


Credo che questa sua capacità di leggere quel mondo si fondasse sulla natura del suo incrollabile garantismo. Era il garantismo che nasceva dalla sofferenza degli ultimi, che si nutriva della diffidenza del movimento operaio e contadino nei confronti di una giustizia spesso di classe e che come tale aveva girato le spalle per molto tempo di fronte all’imperversare della mafia, vero e proprio braccio armato della proprietà agraria. Per questo era refrattario all’utilizzo della lotta alla mafia come elemento identitario e alla sua spettacolarizzazione. Contestava l’idea per la quale questo obiettivo potesse essere raggiunto esclusivamente grazie all’azione delle polizie o della magistratura. Per lui la lotta alla mafia era prima di tutto lotta politica e sociale e per questo non poteva risolversi nel solo processo penale. Emanuele ha avuto una vita lunga e piena, aveva tante cose da raccontare, ma i suoi racconti non erano aneddotica. Il suo sforzo era quello di collegare i fatti che aveva vissuto alla storia che aveva attraversato. E ogni fatto era raccontato come causa o come effetto. Ti stupiva ogni volta per il dettaglio quasi da entomologo con il quale analizzava i particolari del presente senza mai mettere le lenti del passato. Le persone, i dettagli delle posizioni politiche anche di protagonisti minori che a me talvolta parevano trascurabili non sfuggivano alla sua analisi e non c’era nella sua ricostruzione nessuna sufficienza che pure la sua auctoritas gli avrebbe consentito. La sua attenzione era tutta protesa a capire come le cose sarebbero andate a finire. Non il bon ton ma questa tensione non lasciava spazio alla maldicenza gratuita o al pettegolezzo. Credo che anche da tutto questo derivasse la sua prosa di incredibile chiarezza, perché mettere in chiaro era la premessa fondamentale di un esercizio senza il quale non c’era per lui cambiamento: discutere e confrontarsi nella battaglia politica. 


Lui come molti comunisti era convinto che le buone ragioni siano in grado di cambiare l’opinione della gente, persino degli avversari, come ripeteva spesso Paolo Bufalini, un suo importante compagno di strada. Il Pci in fondo è stato tra molte contraddizioni ed errori anche questo, pensiero e popolo, pedagogia e organizzazione del riscatto collettivo o almeno della crescita individuale. Quando in Senato celebrammo i suoi 90 li raccontò come sapeva, di fronte al suo amico e compagno di sempre Giorgio Napolitano, su due passaggi la sua voce si incrinò, ricordando Pio La Torre e il bibliotecario della cellula clandestina del Pcd’I di Caltanissetta morto sotto i bombardamenti per recuperare i libri di quella piccola comunità. Perché i fatti, come diceva, vanno letti come parte della storia ma poi una porzione di loro sfugge alla linea che usiamo per ricostruirla, sono i gesti grandi o piccoli che rendono imprevedibile e sorprendente l’agire umano e che dimostrano che c’è sempre uno spazio di opportunità che può essere colto per cambiare le cose. Lui lo sapeva e di questo è stato innamorato e curioso sino all’ultimo.


Andrea Orlando, 
vicesegretario del Pd

 

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