Italiani, popolo responsabile. Ci scrive Bruti Liberati sul caso Verdini

Le lettere al direttore del 30 dicembre 2020

    Al direttore - 
    Giuseppe De Filippi

     
    Al direttore - La questione dell’obbligo (o meno) di sottoporsi alla vaccinazione contro il Covid-19 è un po’ più complessa di un’opzione tra obbligatorietà e raccomandazione. La contrazione del virus sul posto di lavoro o in itinere è considerata infortunio, un evento che può comportare responsabilità penali per il datore di lavoro il quale è tenuto per legge ad adottare tutte le misure per “tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” previste dai protocolli, onde evitare la possibile contestazione della “colpa” in caso di danni o lesioni subite dal lavoratore in relazione all’infezione da Covid-19. Vi sono allora circostanze, situazioni in cui il lavoratore non può sottrarsi all’obbligatorietà della vaccinazione in quanto misura di prevenzione a cui il datore è tenuto. Ciò vale soprattutto per gli operatori della sanità che, secondo le statistiche Inail, costituiscono il numero prevalente dei lavoratori incorsi in un infortunio sul lavoro nel 2020. In sostanza, in certi casi, non vi è solo un obbligo precauzionale nei confronti degli altri (fino a che punto un soggetto non vaccinato è responsabile di avere contagiato, se infetto, un’altra persona?), ma la vaccinazione entra necessariamente a far parte degli obblighi reciproci del rapporto di lavoro. 

    Giuliano Cazzola

     
    Il suo è un appunto saggio ma mi sembra che, parlando in particolar modo dell’universo della medicina, questo problema non ci sia. La percentuale degli operatori sanitari disposti a vaccinarsi è altissima. La media nazionale è dell’80 per cento, in alcune regioni raggiunge punte del 90 per cento. Gli italiani hanno dimostrato in questi mesi di essere un popolo di adulti e ci sono molte ragioni che ci inducono a pensare che continueranno a esserlo anche nell’anno che verrà. 


     

    Al direttore - Caro Cerasa, ho letto il suo articolo sulla gogna mediatica e devo dire che ho provato un senso di felicità. Senza esagerare. Provo rabbia infatti nel vedere la corsa all’informazione a tutti i costi che ormai campeggia sui nostri giornali, dove fa notizia, rimbalzata a più mandate e in più parti della giornata, il tragitto (e dico il tragitto!) del camion con i sacrosanti, importanti vaccini anti Covid (per carità, lungi da me lo sminuire l’importanza della vaccinazione e questo maledetto virus). Provo delusione nel vedere questo poco rispetto per il lettore, ma alla fine penso che probabilmente l’informazione si adegua a chi ne deve usufruire. Tutto sommato siamo schiavi del profitto e anche qui, giustamente, non c’è eccezione. Siamo un popolo con una storia frammentata, veniamo dai comuni, non siamo nati nell’unita ma siamo stati forzati all’unità. Pertanto la nostra cultura, o meglio, la nostra usanza è quella di guardare nel nostro piccolo orto e invidiare quello del vicino (e se possibile rovinarglielo). Così leggiamo con interesse le disgrazie del prossimo e ci disinteressiamo del finale, siamo centometristi dell’informazione, non maratoneti. Siamo inclini all’applicazione di “a ciascuno il suo” e punto. Tuttavia mi ha fatto estremo piacere il suo punto di vista, perché comunque è bello vedere, nell’appiattimento generale, che esiste qualcuno con una mente fresca e sensibile. Tutto ciò mi conforta, ora che a 44 anni sono nel mezzo del cammin di nostra vita. La saluto con tanta stima e le auguro un 2021 che possa soddisfare tutte le sue aspettative, ne sarei estremamente felice anche io.
    Francesco Iacobelli

     
    Al direttore - Ho letto l’articolo di oggi 29 dicembre 2020, “Appunti di semplice verità sul caso Verdini. La visita nelle carceri non è un privilegio, né un inciucio, ma un diritto”. Si scrive che è l’art. 67 dell’ordinamento penitenziario “a riconoscere ai parlamentari, ai cappellani, ai garanti dei detenuti, ai membri del Csm e ad altre figure di garanzia la prerogativa di far visita ai detenuti in carcere senza autorizzazioni”. Comprendo lo spirito di polemizzare con atteggiamenti forcaioli ricorrenti. Ma prospetto alcune osservazioni, dettate dalla mia risalente esperienza di magistrato di sorveglianza e dalla mia perdurante attenzione a una gestione della pena e delle condizioni di detenzione secondo i princìpi della Costituzione e dell’umanità. I colloqui con i detenuti sono disciplinati dall’art. 13 dell’Ordinamento penitenziario:  “I detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui e corrispondenza con i congiunti e con altre persone, anche al fine di compiere atti giuridici. I detenuti e gli internati hanno diritto di conferire con il difensore, fermo quanto previsto dall’articolo 104 del codice di procedura penale, sin dall’inizio dell’esecuzione della misura o della pena. Hanno altresì diritto di avere colloqui e corrispondenza con i garanti dei diritti dei detenuti. I colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia. I locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio e sono collocati preferibilmente in prossimità dell’ingresso dell’istituto. Particolare cura è dedicata ai colloqui con i minori di anni quattordici. Particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari.” L’art. 67 dell’ordinamento penitenziario dispone che “gli istituti penitenziari possono essere visitati senza autorizzazione” da una serie di esponenti delle istituzioni, tra i quali i parlamentari. La “visita” degli istituti penitenziari, senza autorizzazione, e quindi senza preavviso e anche a sorpresa, ha una finalità ispettiva e di controllo sulla gestione dell’istituto penitenziario, e include, ovviamente, anche la visita ai singoli luoghi di detenzione e quindi ai singoli detenuti. Altra cosa, distinta, è il colloquio con i congiunti e “con altre persone” per il quale, pur se è previsto un controllo visivo, deve essere assicurata la riservatezza non essendo consentito il “controllo auditivo”. Per i colloqui, a differenza delle “visite” agli istituti, è prevista una precisa disciplina dell’autorizzazione rimessa, fino alla sentenza di primo grado, all’autorità giudiziaria (al fine di evitare possibili inquinamenti probatori) e, successivamente, alla direzione dell’istituto. E’ aperta da tempo, ma finora purtroppo senza alcun passo in avanti, la questione di assicurare la possibilità di incontri in locali riservati. Nel quadro di un trattamento penitenziario più umano un’attenzione particolare dovrebbe essere riservata alla logistica delle sale colloqui, oggi troppo spesso inaccettabile; e ancor più per i colloqui con i minori. Anche per i colloqui dei detenuti al 41 bis le limitazioni dovrebbero essere rigorosamente limitate alle pur necessarie cautele dirette a evitare il mantenimento di legami con l’organizzazione criminale, con esclusione di ogni ulteriore aspetto punitivo o vessatorio. L’esercizio della “visita” con finalità ispettive e di controllo da parte dei parlamentari e di altri esponenti istituzionali andrebbe incentivato in via generale. Attraverso il resoconto di queste visite chi “è fuori” può rendersi conto delle condizioni di vita di chi “è dentro” Esemplare, al riguardo, l’iniziativa del “Viaggio nelle carceri” meritoriamente attuata dalla Corte costituzionale, per impulso del presidente Giorgio Lattanzi. Poter gettare un occhio al di là delle mura di cinta e “vedere” le donne, gli uomini e i bambini che vi sono, legittimamente, rinchiusi contribuisce a mettere in crisi il “chiudiamoli in cella e gettiamo via la chiave”. Ma la “visita” è e deve rimanere distinta dal “colloquio”. Si noti che con una modifica del 2018 ai “garanti dei diritti dei detenuti” e solo a loro è stata assicurata non solo la ”visita”, ma anche il “colloquio”. Piuttosto che forzare l’esercizio della facoltà ispettiva della “visita”, indebitamente trasformata in un “colloquio”, ottenuto forzando la qualifica istituzionale, molti parlamentari avrebbero potuto evitare solo due anni addietro di affossare i significativi passi in avanti della proposta di riforma Orlando; di lasciare sempre all’intervento della Corte costituzionale l’eliminazione delle preclusioni automatiche più odiose per i “benefici” penitenziari.
    Edmondo Bruti Liberati

     

    Quello che lei dice è corretto, ma non cambia il senso del nostro ragionamento: trasformare un diritto in un privilegio è semplicemente un delitto contro lo stato di diritto. Un caro saluto.
    Al direttore - In quel gigantesco marchettificio che sono ormai diventate le leggi di bilancio e le varie manovre e manovrine, leggo che sarebbe passato un emendamento manco a farlo apposta dei 5 stelle per dare un incentivo / rimborso di 1.000 euro a chi mette un filtro per l’acqua a casa  e addirittura di 5.000 euro se in un bar o ristorante. Ora l’acqua potabile, quella che arriva a casa nostra, nei bar e nei ristoranti è per l’appunto potabile. Cioè perfettamente bevibile e usabile per ogni altro uso domestico. E’ sottoposta a controlli continui ed è spesso, anche dal punto di vista organolettico, migliore di molte acque commerciali. Che lo stato finanzi impianti quasi sempre perfettamente inutili, placebi per anime in pena, e che lo faccia gettando implicito discredito sull’acqua che sotto il controllo pubblico viene distribuita è semplicemente una follia. Che governo e  Parlamento poi abbiano  approvato dimostra solo quale marchettificio sia diventata la ricerca di consenso politico. O forse proprio in quella direzione occorre guardare? Vale a dire nella direzione di chi ci guadagna. Non certo i cittadini ma, per usare un linguaggio caro ai 5 stelle, qualche lobbista di qualche fabbricante di aggeggi superflui. Veda lei. 
    Chicco Testa