(foto LaPresse)

Dunque il liberista torna a essere più pericoloso dell'asintomatico

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - L’asintomatico non contagia, ma torna la paura del liberista.

Giuseppe De Filippi


 

Al direttore - Colao meravigliao.

Michele Magno


Al direttore - Rivolte in decine di carceri con oltre dieci morti, cambi con polemica al vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, provvedimenti “svuota carceri” e decreti per far tornare in cella decine di persone appena scarcerate o poste ai domiciliari. Per il carcere non c’è mai pace, è sempre un’emergenza, e come tale diventa occasione di scontro, quasi sempre ideologico, cioè a prescindere dai dati di fatto ed è quello che è accaduto anche quest’anno, il 2020 della pandemia. Uno scontro in cui è facile identificare gli sconfitti, il primo è l’articolo 27 della Costituzione quando, nella sua seconda parte recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tra gli sconfitti ci sono anche i tanti operatori dell’amministrazione che si impegnano con grande dedizione, spesso in condizioni difficilissime, gli assistenti sociali, i medici carcerari e le stesse guardie, mal pagate e mal organizzate, che sono costrette a lavorare in condizioni inaccettabili. E i detenuti, quasi per la metà, va ricordato, in attesa di giudizio definitivo, che vivono in una situazione che tranne pochi e virtuosi casi certo non si può definire “tendente alla rieducazione”. Sono trascorsi oltre 30 anni da quando è stata approvata la legge 663/86 che porta il nome di Mario Gozzini, cattolico eletto come indipendente nelle liste del Pci, ispiratore di una legge che segnò un punto di svolta per le carceri italiane. A larghissima maggioranza, il Parlamento, con il voto contrario solo del Msi, introdusse l’affidamento in prova al servizio sociale, permessi premio, la detenzione domiciliare, il regime di semilibertà, oltre a altri provvedimenti che estesero il concetto di pena oltre una mera “carcerizzazione”. L’obiettivo era proprio quello di riempire di contenuti, davvero e per la prima volta, l’articolo 27 della Costituzione. C’è un prima e un dopo legge Gozzini, e nel dopo c’è stato l’impegno ad attuarla concretamente e quello di difenderla dai tentativi di svuotamento, di tornare alla situazione precedente in cui l’unica modalità di espiazione della pena era il carcere ignorando un dato di fatto fondamentale: quando i detenuti sono messi nella condizione di costruirsi un percorso di reinserimento la loro recidiva, cioè il loro ritorno a delinquere, è molto inferiore rispetto a chi sconta l’intera pena in carcere. Una migliore gestione della politica carceraria significa meno reati, una società più sicura. Impegnarsi su questo fronte non è solo “giusto” dal punto di vista costituzionale ma anche efficace per una maggiore tutela della collettività. E oggi, di fronte alla situazione in cui ci troviamo, cosa possiamo fare? I livelli su cui si può intervenire sono due, uno legislativo e uno “gestionale”. Dal punto di vista legislativo non torno sulle controriforme approvate dal Parlamento quale quella della prescrizione e sulla riforma, tanto annunciata quanto ancora misteriosa, del processo penale e non posso ignorare che vi sono troppi impegni ancora non mantenuti. Basti pensare all’abolizione dei decreti “insicurezza”, allo Ius soli (invero Ius culturae), alla depenalizzazione, a un rafforzamento dei riti alternativi. Riforme che inciderebbero positivamente sui tempi dei processi penali e sul reinserimento sociale dei detenuti, facendoci ritornare allo spirito della “Gozzini”. Né si dica che, in questa situazione economica e sociale, altre sono le priorità, dal momento che queste sono riforme che non inciderebbero dal punto di vista economico e che una giustizia celere ed efficiente, oltre che garantita e garantista, avrebbe risvolti positivi sulla credibilità internazionale del nostro paese visto che le condanne delle corti europee sui tempi della nostra giustizia ormai non si contano più. In questi anni ci sono stati molti interventi sul processo penale, interventi disomogenei e magari dettati da esigenze “ad personam”, quando invece sarebbe stato necessario un intervento più complessivo e armonico. Non sono mancate le proposte; è mancato il contesto politico-parlamentare per trasformarle in leggi. Sono riforme lunghe da approvare e difficili da attuare. Non c’è quindi tempo da perdere per evitare che anche questa sia una legislatura perduta, come è appunto accaduto troppo spesso in passato. Quanto alla gestione del nostro sistema carcerario credo comunque si possa fare molto anche con le norme vigenti. Ci sono casi di “successo” nelle nostre carceri che potrebbero e dovrebbero essere prese ad esempio. Penso al carcere Due Palazzi di Padova, dove il rispetto della dignità umana e la rieducazione del condannato si applicano attraverso i tanti laboratori offerti e i diversi percorsi di formazione. Ricordo la struttura circondariale di Sondrio e l’esperienza della Cooperativa Ippogrifo con il marchio “Pastificio 1908”, senza dimenticare l’esperienza del carcere di Bollate che in questi anni ha avuto molti riconoscimenti. Sperimentazioni, tutte concordate con il ministero, che hanno contribuito a creare un clima più sereno e ad aiutare i detenuti a tornare nella società con dignità avendo imparato una professione. Modernizzare il nostro sistema carcerario rappresenta una sfida gigantesca, una sfida che si deve affrontare anche a piccoli passi quotidiani perché l’obiettivo è rendere la nostra società più giusta e più sicura.

Giuliano Pisapia 

 

Come abbiamo già avuto modo di scrivere sul nostro giornale, le carceri italiane hanno dimostrato in questi mesi di essere lo specchio di una democrazia non sana, infettata dal virus dell'indifferenza. E un paese che tende a considerare normale avere nelle proprie 200 carceri un tasso di affollamento ufficiale pari al 121 per cento (61.230 detenuti a fine febbraio) con picchi del 202 per cento (come a Como e a Taranto) e con un 27,3 per cento di istituti in cui i detenuti hanno meno di tre metri quadrati di superficie calpestabile ognuno è un paese che ha scelto di chiudere gli occhi di fronte alle violazioni dello stato di diritto. Perché il carcere non è solo il luogo in cui si trovano i detenuti. E' anche altro: è l'intersezione perfetta tra la nostra idea di libertà, il confine del garantismo e la capacità di voler giustizia senza farsi giustizia.

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