Nicolas Maduro (foto LaPresse)

Con la Russia, Maduro, Erdogan, con i gilet gialli. E' il cambiamento, bellezza

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Però mettetevi pure voi nei panni di un governo che riceve dossier da Toninelli.

Giuseppe De Filippi

 

Con Maduro, con Putin, con Erdogan, con l’Iran, con la Cina, con Orbán, con Le Pen, con i gilet gialli. Il cambiamento in fondo è anche questo: non prima gli italiani, ma prima di tutto i nemici della democrazia liberale.

 

Al direttore - Da noi non esistono i fondamentali culturali e politici che possano portare alla possibilità di “governare”. Di attuare cioè concretamente il programma elettorale su cui, sia il singolo partito sia una coalizione, abbiano raccolto voti per una maggioranza di governo. I fondamentali culturali che mancano a livello del popolo, sono il senso dello stato e la capacità di condividere un interesse generale, oltre quello di categoria o fazione. Quelli politici sono il ricorso costante alle frammentazioni e divisioni, le “correnti”, prevalenti su ogni progetto “unitario”. A meno che non lo sia solo a parole o per transitorie convenienze: personali o di fazione. Oggettivamente, realisticamente o ci s’impegna sui fondamentali, oppure cambiare governo, non ha senso. Lo so, capisco bene che quanto ogni giorno ci somministra l’informazione, non sia “perfidia” o “disonestà”, è solo lo specchio di un paese senza fondamentali. Si riuscirà a far comprendere che questo difetto danneggia tutti?

Moreno Lupi

 

Al direttore - Caro Cerasa, il nostro paese, ha fortemente bisogno di “politiche” che abbiano un orizzonte più ampio. Purtroppo si guarda troppo al breve periodo, senza tenere in considerazione il quadro di lungo periodo. Ci sono molti “rischi” che vengono da oltre confine. Per citarne alcuni: le politiche commerciali del presidente Donald Trump e le conseguenze che potrebbero avere sul sistema degli scambi, la deregolamentazione finanziaria che gli Stati Uniti sta adottando (come se il 2008 non avesse insegnato nulla), le prossime elezioni europee e le incertezze legate alla Brexit. Tutti questi rischi possono avere conseguenze importanti anche per l’Italia. Dal governo italiano, ci si aspetterebbero ad esempio, investimenti per migliorare la qualità della scuola e dell’università, azioni per il lavoro, azioni concrete su progetti di innovazione tecnologica e politiche sociali che incoraggino l’immigrazione in Italia di personale altamente qualificato. Sono solo ipotesi, ma oggi le uniche certezze che abbiamo sono per la spesa improduttiva, l’appesantimento del sistema pensionistico, la chiusura dei porti e il pagamento di enormi interessi sul debito. Tutte cose che l’Italia non può permettersi.

Andrea Zirilli

 

Al direttore - Nel congresso in corso del Pd, uno dei punti di tensione tra le diverse componenti del partito è il rapporto con il passato più recente delle vicende politiche italiane. Nel decennio compreso tra la crisi del 2008 e le elezioni parlamentari del marzo 2018, per l’Italia c’è una data simbolo da cui partire per una ricostruzione storica quanto più possibile oggettiva degli eventi politici: il 16 novembre 2011, ovverosia la nascita del governo Monti. Quell’evento non fu soltanto la conseguenza del precipitare della più grave crisi finanziaria italiana dal secondo Dopoguerra. La costituzione del governo tecnico del professore Monti ebbe il merito di portare alla luce i termini di un confronto – non più aggirabile – sulla giustificazione, natura e orizzonte dell’azione politica del governo della Repubblica in un contesto di grave crisi del nostro paese. La società italiana ha evidenziato una divisione tra due aree o fronti tendenzialmente sempre più confliggenti tra loro: da un lato chi riteneva necessaria e legittima una politica di risanamento e riforme conforme alla collocazione ed adesione dell’Italia all’Eurozona; dall’altro lato chi invece considerava tale politica contraria agli interessi degli italiani e, dunque, finanche illegittima. Durante i successivi governi Letta, Renzi (patto del Nazareno docet) e Gentiloni, la frattura si è allargata e consolidata, con il Pd sostanzialmente sulla linea della conformità riformismo-Eurozona, e M5s e Lega sul fronte opposto del rifiuto dei vincoli e delle compatibilità con l’euro, rifiuto corredato da un’azione di delegittimazione dei governi e delle relative leadership succedutisi dal 2011 al marzo 2018. Il referendum costituzionale del dicembre 2016 e le elezioni politiche del 4 marzo 2018 sono stati un’espressione dello scontro che si è aperto nell’autunno del 2011. Il referendum costituzionale, anche per responsabilità grave di una FI oramai in deriva salvinista, è stato impiegato come strumento per abbattere l’establishment di governo piuttosto che come l’occasione per operare una seria riforma dell’ordinamento della Repubblica e del sistema elettorale in senso marcatamente maggioritario. Le elezioni del 4 marzo, poi, hanno sancito l’affermazione delle forze del polo populista e sovranista. Or dunque, le tre componenti del Pd (Zingaretti, Martina, Giachetti), che si scontreranno nell’imminenti primarie per l’elezione del nuovo segretario del partito, come valutano il decennio 2008-2018? Il problema non è aggirabile né rimovibile con l’escamotage della discontinuità politica e organizzativa rispetto all’eredità del renzismo, appena si rifletta sulla non piccola evidenza che la politica renziana si è mossa lungo il terreno della legittima e necessaria politica di risanamento e riforma dell’Italia conforme alla collocazione e adesione del nostro paese all’Eurozona. La discontinuità rispetto al renzismo rischia così di diventare una discontinuità rispetto all’Europa e all’Unione, quantunque mascherata dall’artificio retorico del rinnovamento della classe dirigente di partito. Ma si può ancora rimediare: le idee ci sono, il modo pure. Il tempo, invece, è poco.

Alberto Bianchi

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