Una manifestazione di Pulse of Europe a Francoforte, nel maggio 2017

Il bluff della generazione Erasmus. Rousseau spiegato ai francesi: risate

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - C’è uno che vuole spiegare Rousseau ai francesi.

Giuseppe De Filippi

 

Ma prima o dopo esserci fatti ridare la Gioconda?

 

Al direttore - A fronte di fatti, numeri e cifre – magistralmente documentati da Matteo Matzuzzi sabato scorso su queste colonne – che dicono di una realtà di crescente persecuzione dei cristiani nel mondo, il fatto che il martirio di migliaia di persone ogni anno avvenga prevalentemente in paesi islamici sembra essere un dato del tutto ininfluente nel dibattito politico e culturale occidentale. Allo stesso modo in cui quando le nostre vite vengono sconvolte dall’ennesimo attacco terroristico, per pura pavidità e salvo rarissime eccezioni ci si guarda bene dal chiamare le cose col loro nome (se è vero che non tutti gli islamici sono terroristi è altrettanto vero che la stragrande maggioranza dei terroristi è islamica, vorrà mica dire qualcosa?), quando la cronaca racconta di episodi di violenza e persecuzione contro i cristiani scatta implacabile lo stesso meccanismo delle denunce a mezza bocca, delle dichiarazioni fumose con il solito sgradevole retrogusto di una compassione pelosa, quando non si tratti di un assordante silenzio. Ad aggravare la situazione, la riproposizione come un disco rotto di una retorica del dialogo e del rispetto dell’altro fatta non solo di luoghi comuni triti e ritriti ma anche di una narrativa che attinge a storie che con il dialogo, quello vero, non hanno nulla a che vedere. Un esempio su tutti, il famoso episodio dell’incontro tra san Francesco e il sultano d’Egitto Malik Al Kamil, avvenuto a Damietta nel 1219, spesso e volentieri citato (anche di recente) a mo’ di icona del giusto atteggiamento da adottare nel “dialogo” tra l’occidente e l’islam. Episodio di cui però si dimentica (o si fa finta di dimenticare) un paio di particolari che risultano invece decisivi per evitare strumentalizzazioni e fraintendimenti. Primo, san Francesco non parlò col sultano così, tanto per farci due chiacchiere e confrontarsi sulle reciproche fedi, ma per annunciargli il Vangelo nella speranza di convertirlo a Cristo (lui e tutti i saraceni che incontrò sul suo cammino), come testimoniano le fonti e gli studiosi più autorevoli, fedelmente a quella che è la missione di ogni cristiano; a riprova, ecco cosa scrisse di quell’incontro san Bonaventura nella sua “Leggenda maggiore”: “Quel principe (il sultano, ndr) incominciò a indagare da chi, e a quale scopo e a quale titolo erano stati inviati e in che modo erano giunti fin là. Francesco, il servo di Dio, con cuore intrepido rispose che egli era stato inviato non da uomini, ma da Dio Altissimo, per mostrare a lui e al suo popolo la via della salvezza e annunciare il Vangelo della verità. E predicò al Soldano il Dio uno e trino e il Salvatore di tutti, Gesù Cristo, con tanto coraggio, con tanta forza e tanto fervore di spirito, da far vedere luminosamente che si stava realizzando con piena verità la promessa del Vangelo: ‘Io vi darò un linguaggio e una sapienza a cui nessuno dei vostri avversari potrà resistere o contraddire’ (Lc 21,15)”. Il racconto prosegue dicendo che il Sultano ascoltava volentieri san Francesco pregandolo di restare con lui, al che il santo rispose lanciando la famosa sfida: “Se, tu col tuo popolo, vuoi convertirti a Cristo, io resterò molto volentieri con voi. Se, invece, esiti ad abbandonare la legge di Maometto per la fede di Cristo, dà ordine di accendere un fuoco il più grande possibile: io, con i tuoi sacerdoti, entrerò nel fuoco e così, almeno, potrai conoscere quale fede, a ragion veduta, si deve ritenere più certa e più santa”. Sfida che il Sultano si guardò bene dall’accogliere per timore, dice san Bonaventura, “di una sedizione popolare”. Secondo punto, san Francesco si recò dal sultano Al Kamil a seguito dei crociati (leggi bene: cro-cia-ti), ai quali si era unito insieme a tantissimi altri pellegrini dell’epoca, desiderosi unicamente di liberare i luoghi santi del cristianesimo, in primis il Santo Sepolcro, occupati manu militari dai musulmani. Come si vede un atteggiamento, quello del santo di Assisi, lontano anni luce tanto da certa iconografia pacifista quanto da una miope cultura del dialogo che, anche in ambito cattolico, continua a guardare al dito per non vedere la luna. Chiudo con una domanda volutamente provocatoria: da zero a dieci, quante probabilità ci sono di assistere di nuovo a un “dialogo” simile a quello tra san Francesco e il sultano?

Luca Del Pozzo

 

Al direttore - Nella loro inchiesta pubblicata ieri sul Foglio, Lorenzo Borga e Lorenzo Ferrari criticano la definizione stessa di “Generazione Erasmus”, sostenendo che si tratta di una ristretta élite e non di un fenomeno di massa. Condivido totalmente. Sarebbe meglio evitare di autocitarsi, ma siccome Borga e Ferrari hanno fatto riferimento all’edizione italiana del mio libro, pubblicato nel 2016 con Egea editore, rimando a quelle pagine perché sostengo esattamente le stesse cose. E’ certamente vero che coloro che prendono parte a uno scambio Erasmus sono una minoranza. Una minoranza in forte crescita, però: rispetto ai 300 mila di trent’anni fa, oggi sono milioni i giovani europei a essere partiti. E soprattutto, non si tratta di soli studenti universitari: l’Erasmus si è allargato, e con Erasmus+ ora include professionisti, cooperanti, formatori, sportivi… Insomma: se è partito come fenomeno di nicchia, ora sta rapidamente allargando le proprie maglie. Faccio un esempio: nel 2017 sono partiti per esperienza di scambio oltre 2.500 educatori e insegnanti italiani, quasi il doppio rispetto al 2014, e le regioni più coinvolte nel nostro paese sono state Puglia, Campania e Sicilia. Il tema non è, infatti, se valutare positivamente l’Erasmus: è come estendere questa esperienza, facendo sì che possano parteciparvi sempre più europei. Nella mia attività di sottosegretario agli Affari europei, ho combattuto a Bruxelles affinché non vi fosse alcun taglio alla mobilità Erasmus, e anzi impegnando la Commissione Europea a un raddoppio dei fondi nel bilancio Ue. Come governo italiano, non abbiamo esitato al momento di porre il veto alla revisione del bilancio 2016 proprio per ottenere quello che Borga e Ferrari propongono: aumentare i fondi per la lotta alla disoccupazione giovanile e per la mobilità europea. E abbiamo ottenuto un primo aumento, lavorando d’intesa col Parlamento europeo. E fin dal 2015 mi batto perché i fondi per l’Erasmus siano decuplicati. Anche in seguito alla nostra spinta, la Commissione europea ha proposto il raddoppio dei fondi per il bilancio 2020-2027, attualmente in fase di negoziato. In occasione dei trent’anni della nascita del Programma Erasmus, abbiamo proposto molti correttivi, a partire proprio da una maggiore disponibilità economica per coloro che non possono permettersi un’esperienza di questo tipo. E al Vertice sociale di Göteborg di novembre 2017 sono stati presi, su iniziativa di Svezia e Italia, nuovo impegni sociali che vanno esattamente nella stessa direzione. Perché questa è la strada da seguire: un “Erasmus dell’inclusione sociale”, capace di rivolgersi a chi ha meno possibilità, per un’Europa che sia sempre di più un “moltiplicatore di opportunità”. Mi convince molto meno la costante critica che si fa all’Erasmus, specialmente dopo la crisi economica: ma in questo caso penso che si tratti di una moda, quindi destinata a passare. Appellarsi alla generazione Erasmus non significa parlare a un’élite cosmopolita che vive nelle grandi metropoli: mica tutti finiscono a studiare a Bruxelles, Parigi o Madrid. Gli Erasmus hanno portato ricchezza nei piccoli borghi, nelle città universitarie di provincia, spesso venendo a loro volta dalla provincia europea. Facciamo in modo che siano sempre di più a chiudere la valigia e prendere un biglietto low-cost. Quelle ragazze e quei ragazzi che sono partiti per l’Erasmus, oggi magari sono a Londra in piazza contro la Brexit o a Budapest contro Orbán. Parlare a loro significa parlare a chi incarna gli ideali europei e a chi ha “vissuto l’Europa”: non sarà una narrazione molto di moda, ma ha un suo (enorme) valore. Perché anche i simboli, e non solo i numeri, contano per raggiungere un grande obiettivo.

Sandro Gozi

 

Per troppo tempo il ceto politico italiano ha utilizzato la generazione Erasmus in modo sbagliato e persino pericoloso in quanto ha attribuito a una fascia di giovani una peculiarità che quei giovani non hanno e non avevano: la capacità di essere in modo naturale i portatori sani di un pensiero europeo. Chi ha avuto modo di girare l’Europa senza passaporti, senza conoscere le frontiere, senza conoscere le barriere, ha avuto certamente la possibilità di approfondire meglio quali sono le ragioni che fanno dell’Europa un luogo di opportunità e non di pericoli ma aver trasformato la generazione Erasmus – una generazione minuscola come ha scritto ieri il Foglio considerando che dal 1987 a oggi solo il 2 per cento dei giovani ha approfittato del programma di scambio europeo che dà il nome alla generazione, cioè l’Erasmus – nel simbolo della forza dell’Europa è stato un errore perché ci ha fatto dimenticare le ragioni per cui l’Europa è centrale nelle nostre vite ogni giorno e non soltanto quando si va in Erasmus. Un ceto politico con la testa sulle spalle, prima ancora di puntare sulla generazione Erasmus, dovrebbe partire da qui.

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