Annie Ernaux (foto Epa, via Ansa)
Lettere rubate
I vestiti lungo il corridoio, o in un mucchietto in cucina. Annie Ernaux e le foto
Un amore raccontato attraverso immagini e parole, dove il corpo malato, il desiderio e la quotidianità si intrecciano fino a trasformare la fotografia in una prova di realtà e la scrittura in un modo per sopravvivere alla vita e alla sua ferita più profonda
Mi capitava spesso, sin dall’inizio della nostra relazione, di restare affascinata nel ritrovare al mattino la tavola non sparecchiata della sera prima, le sedie spostate, i vestiti aggrovigliati, buttati a terra alla rinfusa nel fare l’amore. Il paesaggio era ogni volta diverso. Doverlo distruggere, quando ognuno raccoglieva le proprie cose, mi stringeva il cuore. Avevo l’impressione di cancellare l’unica traccia oggettiva del nostro piacere.
Annie Ernaux e Marc Marie
“L’uso della foto” (L’orma editore, trad. di L. Flabbi)
L’erotismo è l’approvazione della vita fin dentro la morte, avverte Georges Bataille dall’esergo di questo libro, che è fatto di frammenti e di foto: i frammenti raccontano le foto, che sono le tracce di quel che è accaduto tra loro quella sera, quell’altro giorno, quel pomeriggio in cui si sono amati. La regola è che niente deve essere toccato, nessuna scarpa, nessun collant deve essere spostato da dove si trova: sarebbe come cambiare le parole in una fraseLe foto vengono scattate con macchine digitali e poi portate a sviluppare in uno di quei posti che lo fanno in pochissimo tempo, il rituale domestico prevede che i due amanti le tirino fuori dalla busta dentro casa, insieme, mentre bevono qualcosa, con un disco in sottofondo. Lei è Annie Ernaux e si sta curando per un cancro al seno, quindi c’è anche “l’altra scena”, quella del corpo glabro, che viene esclusa dalle fotografie. Dice: domani ho la chemioterapia, con la stessa naturalezza con cui l’anno prima diceva: domani ho il parrucchiere. Gli amanti decidono di scrivere, ognuno in solitudine, qualcosa su quelle foto, su quella prova di realtà dell’amore.
“Sono le scarpe che M. porta più spesso, logore e deformate, il cui sistema di allacciatura ci costringe a interrompere la sequenza dei gesti amorosi, imponendo una pausa al desiderio. Immagine persistente di lui, impacciato dai jeans calati a metà coscia, nello sforzo di sfilarsele via, una dopo l’altra.” Uno scarponcino che schiaccia, con la punta, un reggiseno. Lui che scrive: bisognerebbe sempre mettersi gli abiti che usano i trasformisti: bottoni a pressione, velcro, cerniere lampo. Per evitare quell’imbarazzo di non riuscire a slacciarsi le scarpe, per contrastare la fragilità del desiderio. Lui le dice, ed è lei a scriverlo: hai avuto il cancro solo per poterne scrivere.
“Ho sentito che, in un certo senso, aveva ragione, ma finora non riuscivo nemmeno a iniziare. È stato solo a partire da queste immagini che ho potuto farlo. Come se la scrittura delle foto autorizzasse quella del cancro”. Questo libro, che non si poteva in nessun modo prevedere, ha scatenato molte cose oltre alla distanza tra ciò che si vede e ciò che si vive. Ha scatenato la realtà.