Memorie di una bambina perbene. La solitudine e lo stupore di Gaia de Beaumont

Annalena Benini

Papà: “Tanto vale che ti punti una pistola alla testa… purtroppo non puoi farti saltare il cervello perché non ne hai uno”.
“Avresti dovuto saperlo quando mi hai sposata… Comunque, questa casa manca di veri uomini. Che dire dell’andirivieni dei tuoi amici farfallosi… quegli artisti con gli occhialetti che passano per casa… Tutti più di là che di qua… non vorrai dirmi che sono veri uomini! Perché discuterne?”.
Gaia De Beaumont, “I bambini beneducati” (Marsilio)

Secondo la madre di questa bambina beneducata e smarrita, figlia di un mondo aristocratico che divideva il resto delle persone in due categorie: i Qualcuno e i Nessuno, il marito si applicava con la massima coscienziosità per renderle la vita infelice, e lei per liberarsi dal dolore aveva iniziato a bere molta vodka: l’unica salvezza nella vita era esagerare continuamente. Non conosceva un altro modo. Per una bambina, figlia unica, che la guardava, per una bambina che era sua figlia e che la ascoltava dire: avrei tanto desiderato un maschio, e anche: si può sapere come mai non cresci?, era un modo incomprensibile di affacciarsi alla vita. Dentro alle regole delle persone abituate a modificare i propri sentimenti naturali per mostrare la virtù delle buone maniere, e non dire mai in nessun caso a tavola: non mi piace, posso alzarmi?, e non fare domande sciocche né intelligenti, perché “i bambini beneducati vanno visti e non sentiti”, e mai mai mai provare a baciare un maggiordomo. Le bambine beneducate, a Roma negli anni Cinquanta e Sessanta, dovevano imparare a danzare sulle punte, o almeno a esercitare una certa grazia che sarebbe servita poi nella vita sociale futura, dormivano lontano dalle stanze dei genitori e venivano svegliate al mattino dalla governante inglese, indignata per l’esistenza in casa del bidet.

“Mia cara, dovrà farsene una ragione. Qui non siamo tra pecorari nella fetida e piovosa Scozia ma in una casa elegante nel centro di Roma. Questi bidet vengono dal miglior negozio di Parigi… in città non li ha nessuno…”, la prendeva in giro il padre di Gaia De Beaumont, che veniva da una grande famiglia aristocratica francese, una specie di famiglia reale. “Credo bene”, aveva risposto lei quasi piangendo ma con immensa dignità. “Sarà anche come dice lei, ma quando lavoravo come governante dai Reali di Romania…”. “Capisco. Ma i rumeni sono i rumeni e anche se sono Altezze Serenissime, sappiamo tutti come vivono… sono degli zozzoni”. La governante non se la sentiva di ufficializzare l’esistenza delle parti basse, le sembrava sconveniente, come spogliarsi davanti all’idraulico. In mezzo a abitudini rigide e comiche insieme, la formazione di una ragazza perbene dentro una famiglia costruita unendo due patrimoni e due infelicità era come un destino ventoso, come essere scaraventati da qualche parte senza capire perché. “Se ci fosse oggi – scrive Gaia De Beaumont di sua madre – le chiederei cosa avesse provato nell’essere spinta dalla famiglia a compiere un gesto così abnorme. Come si era sentita ad avere un figlio che non voleva – o meglio una figlia che non desiderava affatto – solo per questioni dinastiche?”.

C’è ironia in questo memoir spietato e malinconico, ma non c’è una vera allegria nell’infanzia di una bambina che si trovava più a suo agio a scuola che a casa, nemmeno nella meravigliosa villa in Toscana in cui un giorno arrivò, ospite autoinvitatosi, Carlo d’Inghilterra, e la nonna italiana, dopo avere spiegato la regia generale, i comportamenti, i vestiti e gli inchini (nessuno doveva chiedere: come sta), disse: “Non dimenticate che è un tipo come tanti…un poveraccio”. Del resto una prozia francese a una cena, porgendo il libro degli ospiti, aveva detto: “La prego signor Proust, niente frasi di circostanza”. Ma la scoperta di Gaia De Beaumont va oltre l’estraneità a un mondo di cui si guarda con chiarezza la fine, arriva più in là perché ammette che quella non è stata un’illusione, ma la sua vita. “Il gruppo da cui venivo ha determinato in maniera profonda, ben più di quanto sia disposta ad ammettere, le azioni e anche i miei pensieri”. Tutte quelle buone maniere, sedimentate in migliaia di anni, hanno prodotto qualcosa. Forse anche l’estremo gesto di ribellione di sua madre. “Tale la rabbia contro la morte e la consapevolezza che il mondo sarebbe andato avanti allegramente senza di lei, che la sua ultima parola per me fu: ‘Vaffanculo’”.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.