Il caso Weinstein e gli uomini che non possono commentare. Cantone risponde a Cassese

Al direttore - A leggere gli assidui interventi sul Foglio del prof. Cassese si direbbe che la colpa di tutti i mali d’Italia sia l’Anac, ieri addirittura accusata di attentare alla libertà universitaria poiché un capitolo dell’aggiornamento al Piano nazionale anticorruzione è dedicato agli atenei. Accetto sempre come salutari le critiche fondate, solo che Cassese, come già in passato, ha sostenuto una serie tale di inesattezze che – oltre a non fare onore alla sua figura e a farmi dubitare del reale livello di approfondimento delle questioni di cui parla – mi costringe (nuovamente e controvoglia) a intervenire per consentire ai suoi lettori di avere quanto meno un’informazione aderente ai fatti. Per essere il più chiaro possibile (anche per Cassese, se ne ha davvero voglia) ci tengo dunque a precisare che: 1) pensare che l’inchiesta di Firenze sui tributaristi abbia “motivato l’accelerata estensione del Piano anticorruzione” alle università è una follia. Ci vogliono mesi per un lavoro simile, tant’è vero che la prima riunione si è tenuta a febbraio. Bastava leggere una delle tante interviste rilasciate dal ministro Fedeli dopo gli arresti per apprenderlo; 2) le linee guida non le ha scritte in solitaria l’Anac ma, come ha ribadito più volte il ministro nelle stesse interviste che Cassese si direbbe non abbia letto, sono il frutto di un Tavolo di confronto cui ha partecipato il mondo universitario a tutti i livelli (Miur, Crui, Anvur, Codau, Cun, etc.). Anche in questo caso, per informarsi era sufficiente sfogliare un giornale o fare una telefonata a qualche collega; 3) la “cabina di regia” della ricerca, sventolata come la prova delle aspirazioni orwelliane dell’Anac, non è stata proposta dall’Autorità ma da alcuni esperti, fra i quali uno dei migliori amministrativisti d’Italia. L’obiettivo è proprio l’opposto rispetto a quello paventato: evitare la dispersione delle risorse in un momento in cui scarseggiano, privilegiando le università più meritevoli. Insomma, l’Anac non ha alcuna ambizione “moralizzatrice” né intende mettere in discussione la libertà e l’autonomia degli atenei (ricordo che tre consiglieri dell’Autorità su cinque sono professori ordinari) ma solo, in ossequio a quanto previsto dalla legge, cercare di assicurare la buona amministrazione della cosa pubblica tramite la flessibilità della soft law. Nel caso delle università, anche provando a sterilizzare e circoscrivere l’impatto dei conflitti d’interesse. A giudicare dal prezioso contributo ricevuto in questi mesi dal mondo accademico, tale obiettivo è stato perfettamente compreso. Anche se posso capire, a giudicare dalle parole di Cassese, che tutto sommato l’andazzo attuale non dispiaccia proprio a tutti.

Raffaele Cantone, Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione

 

Il presidente dell’Anac offre argomentazioni interessanti ma c'è un punto che forse meriterebbe di essere affrontato con attenzione: perché l’Autorità si interessa di problemi che sono fuori delle sue competenze, che sono definite dalla legge? Per essere ancora più chiari: se all’Autorità vengono formulate richieste estranee alle sue competenze, è giusto che l’Autorità se ne occupi? Sappiamo che non è facile definire quali sono i confini della prevenzione nella lotta alla corruzione ma se Cantone è, come spesso dice, un nemico della repubblica giudiziaria dovrebbe concordare con noi su un punto: quando un'autorità anti corruzione si occupa di mettere insieme un codice anti corruzione che diventa “codice etico” entra in un campo che non dovrebbe essere il suo. A meno che, ed è questa la nostra paura, l’Italia non sia diventata un luogo in cui l'unico pungolo che funziona, l’unico nudge accettato per dirlo alla Thaler, è quello che ha il bollino di un'autorità giudiziaria. A meno che, come scrive spesso il professor Cassese, l’Anac non abbia scelto di avere un ruolo da tutore della moralità pubblica. E’ così? Se il presidente ha voglia sarebbe bello organizzare un confronto anche su questo tema. Un cordiale saluto.

 

Al direttore - Andava avanti da 20 anni: perché lo scandalo Weinstein è scoppiato ora? Perché lui è diventato meno potente (in tutti i sensi)? Perché quelle che ora lo accusano hanno raggiunto una posizione (e un’età) tale da potere denunciare, senza vergogna come donne e senza timore come attrici, quello che, letteralmente ubriacate e impietrite, avevano subìto? O perché solo oggi erano sicure di poter contare su un’opinione pubblica che avrebbe condannato senza misericordia lo “stupratore seriale”? Eppure non è che in tutti questi anni fossero mancate le occasioni per innescare la ribellione: anche se diversa, dato che si trattava di un reato preciso, la violenza su una minorenne, c’era stata nel 1977 la vicenda che ancor oggi perseguita Roman Polansky. Certo, oggi c’è una maggiore condanna sociale, certi comportamenti non sono più tollerati. Davvero? Se le sue abitudini perduravano tuttora, come par di capire, senza che nessuna delle sue più recenti vittime lo denunciasse, allora vuol dire che quei comportamenti sono in astratto inaccettabili per l’opinione pubblica, ma sostanzialmente tollerati, o silenziosamente subiti, dalle dirette interessate, almeno in certi ambienti. Oggi come 20 anni fa. E poi gli uomini: perché nessun uomo l’ha denunciato? Uomini sono alla testa delle grandi aziende dello spettacolo. Se Miramax è un colosso, non è che non abbia concorrenti: e tutti questi avrebbero avuto un diretto interesse a guadagnare spazio demolendo un personaggio così ingombrante. Se non l’hanno fatto, evidentemente è perché “così fan tutti”. E gli altri, mariti, fidanzati: tutti “a loro insaputa”, tutti fermi non invadere paternalisticamente la privacy delle loro compagne? Fino ad adesso, tutti hanno continuato ad applaudire il vestito del re. Finché una ha gridato “Il re è nudo” (impossibile resistere alla battuta). I motivi per cui l’ha fatto sono imperscrutabili e in fondo poco interessanti. Ma sono puramente casuali anche quelli della moglie che ora lo lascia (prima era tranquilla per gli stessi motivi che rassicurano la signora Macron?), Hillary Clinton che darà in beneficenza i contributi ricevuti (perché, altrimenti finivano da Van Cleef & Arpels?), le attrici che fanno a gara per entrare nella lista del New York Times (già sono 40 ad avere denunciato le “attenzioni” di cui sono state oggetto). Tutti e tutte hanno fatto montare un gigantesco “politically correct”: perché la dignità della donna, perché la violenza di un sistema maschilista, perché i produttori di fiction hanno un’idea, diciamo, molto “personale”, di come applicare le quote rosa nelle stanze del loro potere. C’è qualcosa che non torna: perché succede adesso, quando le stesse cose le si dicevano già 20 anni fa? Il mondo del cinema è largamente liberal: aveva taciuto su una certa promiscuità sessuale in casa Kennedy, assolto Clinton e i suoi sigari, quella di Hillary e le sue mail. Ma oggi nella Sala ovale c’è Trump: violento, volgare, molestatore di donne, anche grasso. Come Weinstein. E allora forse va cercata nella politica la ragione della tardiva condanna dei mitici signori del cinema. Quelle violenze sono simbolo delle “violenze politiche” che Trump infligge alla società americana. Un caprone il povero Weinstein: anche espiatorio.

Franco Debenedetti

 

C’è qualcosa che non torna in questa storia orrenda. Ma un uomo non può dirlo, anzi un uomo in questi casi non può permettersi di dire nessun sì, però, se non vuole ritrovarsi di fronte all’accusa di essere un mostro, un orco, un uomo orrendo, un potenziale complice degli abusatori di donne. Un uomo non può permettersi di dire, ma una donna sì, che tra lo stupro e la molestia c’è una differenza, ci dovrebbe essere, spesso c’è, e che c’è differenza tra una situazione in cui una donna non ha scelta e una situazione in cui una donna ha scelta. L’uomo non può dirlo, non può neanche pensarlo, ma una donna sì e per questo vale la pena, per un istante, ascoltare cosa ha detto Natalia Aspesi a Malcom Pagani qualche giorno fa su Vanity Fair. Poche ma sentite e non banali parole. Domanda: “Cosa le dà fastidio leggendo a posteriori le ricostruzioni degli incontri di Weinstein con le attrici?”. Risposta: “La rappresentazione ecumenica, irrealistica, quasi angelicata di questi incontri. Il mostro da una parte, l’agnello sacrificale dall’altra. A quanto leggo,Weinstein non concedeva normali appuntamenti professionali, in ufficio, con una scrivania a dividere ambiti e intenzioni. Non parlava di sceneggiature. Chiedeva massaggi. E se tu chiedi un massaggio e io il massaggio te lo concedo, dopo è difficile stupirsi dell’evoluzione degli eventi”. E ora sotto con gli sbranatori.

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