Che gioia Di Maio. Lettera su Bonev. Appunti per Gentiloni

Al direttore - Ho chiamato varie ambasciate e ho fatto alzare il pil.

Giuseppe De Filippi

Un amore il nostro Luigi Di Maio, come racconta oggi Daniele Raineri in prima pagina. La fake news sul suo intervento “decisivo” per far arrivare in Italia i Canadair per spegnere gli incedi è deliziosa non solo perché è una notizia che mette a nudo lo stile bufalaro dei grillini ma anche perché mette a nudo la loro ignoranza. La procedura di richiesta ad altri paesi degli aerei Canadair non avviene, come dice l’onorevole Di Maio, attraverso la sollecitazione di ambasciate o attraverso la sollecitazione della Farnesina. Avviene con una procedura europea che viene gestita dalla protezione civile. Se Di Maio non fosse Di Maio, probabilmente Di Maio, degno delfino di un clown, avrebbe già chiesto da ore le dimissioni di Di Maio. Che carini.

  


  

Al direttore - Emanuele Fiano propone di inasprire le pene per il reato di apologia di fascismo, che come tutte le leggi che toccano la libertà di espressione, è proposta discutibile. Nello stesso tempo lo Stato non sembra fare una piega davanti ai molti simboli del regime presenti in particolare a Roma. Al Foro Italico campeggia l’obelisco con la scritta cubitale Mussolini Dux. Che cosa penseremmo se andando a Berlino trovassimo vicino alla Porta di Brandeburgo un monumento con la scritta Adolf Hitler Fuhrer? Almeno quella scritta andrebbe rimossa. Ma questa è la differenza tra chi i conti col passato li ha fatti sul serio e chi a chiacchere. Perché per noi italiani in fondo il fascismo era bonario, i veri cattivi stavano da un’altra parte.

Marco Cecchini

   


      

Al direttore - E’ giusto rilevare, come si fa nel dibattito pubblicato sul Foglio del 14 corrente a proposito del rapporto tra le banche e la piazza, che in Italia il passaggio dal bail-out al bail-in ha suscitato proteste, mentre altrove ha riscosso consenso. Ma non va dimenticato che concorre al dissenso il fatto che il meccanismo adottato in Italia per l’intervento nei casi di dissesto ” ab immemorabili”, fino a quando a Bruxelles si è voluto vedere in esso, con una forzatura a là Azzeccagarbugli, la violazione del divieto di aiuti di Stato, ha consentito di non far perdere un centesimo ai depositanti dal 1936 in avanti senza addossare, a conclusione delle operazioni di salvataggio o di sistemazione dei crediti deteriorati, oneri al bilancio pubblico (si veda il caso della ” bad bank” del Banco di Napoli che ha prodotto reddito per il Tesoro). Si può affermare che, con i poteri anche di ” moral suasion” ma senza sfociare nel dirigismo ancora in capo alle autorità monetarie nazionali , in primis Banca d’Italia, delle crisi il grande pubblico non si accorgeva neppure. Dominava la tutela del risparmio. Oggi la Commissione Ue arriva a considerare, senza neppure formalizzare una tale aberrazione, aiuto di Stato anche l’impiego delle risorse, private, del Fondo interbancario di garanzia dei depositi. Tra coloro che poi prestano altrove consenso al ” bail-in” vi sono alcuni che hanno ben diversamente e non in modo esaltante risolto i loro problemi. Vi dicono nulla le banche regionali tedesche? Parla, qui, un ” laudator temporis acti”? No, solo chi ritiene necessaria una soluzione equilibrata del problema dei salvataggi, che non può essere quella imposta dalla Commissione, la quale paradossalmente ammette l’impiego di denaro pubblico solo se la banca esca dal mercato ( ved. caso “venete”). Insomma, io non ti salvo, ma ti pago il funerale. Bel risultato. Con i più cordiali saluti.

Angelo De Mattia

  


    

Al direttore - Si è rivolta a questo studio per ricevere assistenza legale la Sig.ra Dragomira Ianeva Boneva, in arte Michelle Bonev, la quale mi ha conferito espresso mandato di rappresentare quanto segue. In riferimento all'articolo “Fango travestito da giornalismo di denuncia. Il caso Bonev (ricordate?)” a firma del Dott. Luciano Capone pubblicato il 12 luglio 2017 rilevo che è stato scritto, tra l'altro: “Oggi una sentenza conferma che le dichiarazioni choc della Bonev non erano vere né verosimili, ma false… Ed invece erano balle”. Alla Sig.ra Bonev non risulta che esista alcuna sentenza che contenga affermazioni del genere, né che abbia accertato la falsità delle dichiarazioni della Sig.ra Bonev o le abbia considerate inverosimili. Chiedo quindi che la suddetta notizia venga subito chiaramente rettificata in tal senso e vengano inviate le scuse alla Sig.ra Bonev per averLe attribuito il mendacio. Distinti saluti.

Avv. Piero Frattarelli

   

Gentile avvocato. Ci spiace se la signora Dragomira Ianeva Boneva si sia sentita offesa per il nostro articolo e naturalmente pubblichiamo con piacere la vostra rettifica. Il Foglio, il 12 luglio, ha scritto che “ una sentenza conferma che le 'dichiarazioni choc' della Bonev non erano vere né verosimili, ma false, e diffamatorie”. La condanna per diffamazione c'è stata – e naturalmente essere condannati per diffamazione ed essere condannati per falso non è la stessa cosa – ma la sentenza effettivamente dice qualcosa di più rispetto alla veridicità delle frasi della signora Bonev, che per molti mesi, come ricorderà, sono state utilizzate come oro colato da un gran numero di talk show e di giornali al seguito. Le cito un passaggio. “Anche volendo inquadrare le espressioni utilizzate nell'intervista dalla convenuta per descrivere la controparte nel concetto di critica non può ritenersi che siffatta critica sia stata nella specie rispettosa dei parametri indicati, specie per quel che concerne la verità della notizia”. E poi ancora: “Nell'esercizio del diritto di critica è dunque necessario il rispetto del nucleo essenziale di verità del fatto relativamente al quale la critica è svolta”. Ha ragione la signora quando dice che nessuna sentenza attesta che Ella abbia detto il falso. La sentenza attesta, più precisamente, che le dichiarazioni della sua assistita non sono state rispettose “dei parametri indicati, specie per quel che concerne la verità della notizia”. Se preferisce la potremmo chiamare post verità. Un cordiale saluto.

  


  

Al direttore - Si calcola che tra il 2002 e il 2014 quasi 500 mila giovani, prevalentemente laureati e donne, siano emigrati dal sud verso il centro-nord. Da diversi anni le statistiche indicano come l’emorragia dell’emigrazione giovanile non accenni a diminuire. Ma oggi la dimensione del fenomeno va oltre la fisiologica mobilità sociale e assume i contorni di una vera e propria emergenza che, in prospettiva, si traduce in un ulteriore impoverimento economico e culturale delle regioni più svantaggiate. La reazione del governo, per una volta tanto, non si è fatta attendere. “Superare il divario economico e sociale delle regioni meridionali rispetto alle altre aree del Paese”. Già nell’incipit gli intenti del decreto legge n. 91 del 20 giugno 2017 (Disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno) sono nobili, ma viziati da un’impostazione divisiva che rischia di vanificarne gli sforzi. Il cuore del decreto legge Mezzogiorno, in discussione in questi giorni alla Commissione Bilancio di Palazzo Madama, è racchiuso nell’ormai celebre slogan “Resto al Sud” e batte forte sul sostegno alla nascita e alla crescita delle imprese nel Mezzogiorno: una dote da 1,3 miliardi di euro in effetti può essere uno stimolo allettante per trattenere giovani talenti, con una buona idea imprenditoriale, nelle regioni del sud. L’iniziativa del presidente Paolo Gentiloni e del ministro Claudio De Vincenti è certamente encomiabile e potrebbe dare un nuovo impulso all’economia del Mezzogiorno, alla cultura d’impresa e all’innovazione nelle regioni del Sud se, solo se – in sede di conversione – si riuscirà a infrangere la visione monolitica del concetto d’impresa che continua a imperversare nell’azione legislativa del Parlamento italiano. Paradossalmente, il divario economico e sociale delle regioni meridionali che si vuole colmare con decretazione d’urgenza, rischia d’altra parte di amplificare le disparità economiche e sociali – che resistono solo nella politica italiana – tra imprese e professionisti. Secondo alcune stime le misure e gli incentivi del programma “Resto al Sud” porteranno alla creazione di 100 mila nuove imprese tra l’artigianato, l’industria e l’agricoltura, ma interi settori economici, strategici per lo sviluppo del Mezzogiorno, rischiano di rimanere tagliati fuori dalle agevolazioni. E non parliamo solo di liberi professionisti, che secondo la definizione inclusiva del dettato comunitario svolgono un’attività economica che produce reddito (né più né meno di un’impresa industriale), ma anche il turismo e il commercio rischiano di rimanere alla finestra. Proprio in quelle regioni dove turismo, commercio e libera professione sono un formidabile volano per l’autoimprenditorialità e l’occupazione. I tempi per correggere il provvedimento ed estendere quindi le agevolazioni della misura “Resto al Sud” anche ai professionisti under 35 – come richiesto da Confprofessioni – sono strettissimi e non hanno trovato ancora l’unanimità all’interno della Commissione Bilancio del Senato, nonostante il pieno sostegno della relatrice Simona Vicari e l’esortazione della Commissione Lavoro a “includere le professioni tra le attività beneficiarie delle provvidenze” previste dal decreto legge “affinchè i giovani professionisti possano essere sostenuti nei costi di avvio delle loro attività”. Una corsa sul filo del rasoio che potrebbe decidere il destino di migliaia di giovani professionisti: lavorare e crescere nella propria terra d’origine oppure chiudere ogni prospettiva con un biglietto di sola andata verso il nord.

Gaetano Stella

presidente di Confprofessioni

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