Alessandro Di Battista (foto LaPresse)

Dibba che rivendica il diritto alla privacy più comico di Raggi che si esercita con il garantismo

Redazione

Le lettere al direttore del 25 gennaio 2017

Al direttore - “Otto italiani (e di più i giovani) su dieci vorrebbero un uomo forte al comando”. Ce lo dice Ilvo Diamanti sulla Repubblica, quella che temeva la deriva autoritaria (ma solo fino al 4 di dicembre). Renzi avrà pure perso il referendum. Ma Zagrebelsky e i suoi scolari di sinistra hanno perso la faccia.

Umberto Minopoli

 

Al direttore - Leggo che l’onorevole Alessandro Di Battista ha scelto di rendere noto il nome della sua fidanzata. Lo ha fatto con una dichiarazione forte, sincera. “Da giorni diversi fotografi ci seguono ovunque (e seguono questa ragazza fino al pianerottolo di casa o nel suo posto di lavoro per scoprire il suo nome). Tanto vale dirgli che si chiama Sahra e che, in effetti, ci stiamo frequentando. Una cosa normalissima. Ora mi auguro che rispetteranno quantomeno la sua privacy”. La privacy, ho letto bene?

Marco Martini

Dibba che rivendica il diritto di un politico ad aver garantita la propria privacy ricorda molto la Raggi che rivendica il diritto di un politico di essere considerato innocente fino a prova contraria. Popcorn.

 

Al direttore - Le posizioni di Di Battista, giovane deputato e scrittore, di Gigino Di Maio, che si sta sforzando per migliorare nei congiuntivi, di donna Roberta Lombardi, che non sopporta la Raggi, e degli altri dirigenti grillini, spesso, sono non condivisibili e criticabili. Ma ritengo, oltre che una decisione autoritaria, un’offesa all’intelligenza dei parlamentari e degli elettori M5s imporre, come ha fatto, ieri, Beppe Grillo, di concordare le interviste degli eletti con Don Rocco Casalino.

Pietro Mancini

 

Al direttore - In occasione del 25esimo anniversario dell’inchiesta Mani pulite il prossimo 17 febbraio in procura verrà scoperta la lapide: “Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato… Pierfrancesco Pacini Battaglia”. La cittadinanza è invitata a partecipare.

Frank Cimini

 

Bernie Sanders che plaude alla revoca del Trattato transatlantico del libero commercio (Tpp) decisa da Donald Trump, dichiarandosi addirittura disposto a collaborare con il tycoon, è la prova che non solo nella politica italiana regni una gran confusione, dove ciò che viene confuso è il fine di scelte solo in apparenza identiche.

Che gli obiettivi del populismo, proprio per la natura dello stesso, siano quasi interamente sovrapponibili a quelli perseguiti da politiche di destra o di sinistra, non significa che anche i percorsi siano i medesimi e il fatto che a questa basilare constatazione non si dia importanza nel dibattito pubblico dimostra quanto lontani ancora si sia da un’opinione pubblica critica e riflessiva. Basterebbe fare uno più uno, considerare i proclami del Trump elettorale con le decisioni del Trump appena insediatosi, le nomine nel suo staff, i tagli alla Obamacare, per capire l’enorme differenza che c’è tra una critica al liberismo di stampo populista e una di matrice progressista o, parola oramai desueta, socialista. Se il blocco del libero commercio significa meramente il dominio incontrastato delle industrie locali, senza alcuna minaccia di concorrenza dall’estero, per i lavoratori la cosa non deve far certo sorridere in termini di tutele e soprattutto livelli contrattuali. Lo stesso dicasi per le imprese di minori dimensioni, destinate ad abdicare al dominio incontrastato dei colossi nazionali e in Italia ne abbiamo avuti di esempi in tal senso, con la blindatura di settori di mercato in testa a singole aziende italiane, di proprietà sia pubblica sia privata, che hanno di fatto inibito l’iniziativa di altri imprenditori nazionali. Questa non può essere la filosofia del candidato del Partito democratico che si collocava a sinistra di HilLary Clinton, portatore di un ben diverso approccio, vale a dire favorire la concorrenza in un ambito di protezione non delle multinazionali americane, ma delle regole scritte e non scritte che proteggono i soggetti più deboli del mercato, siano essi imprese, lavoratori o consumatori. L’idea di una politica, chiamiamola tradizionale, che si limita a rincorrere i leader populisti senza smarcarsene in modo netto e chiaro, non lascia ben sperare per democrazie in crisi di consensi, legittimità e sicurezza (anche economica).

Marco Lombardi

 

Al direttore - Fa piacere constatare che anche tra i parlamentari si estenda la consapevolezza che il cuore del conflitto politico in corso è tra il partito (in senso lato e trasversale) della restaurazione vs il partito (sempre in senso lato e trasversale) della resistenza e del rilancio riformisti (lettera al Foglio della senatrice Manuela Repetti 21-01 u.s.). In tal senso, però, si pone un interrogativo, eludendo il quale la stessa azione politica di resistenza e ricostruzione del fronte riformista risulterebbe frammentata e inefficace. Da che punto in poi l’azione riformista ha perso, ahimè, la propria spinta propulsiva? Credo che lo snodo non si collochi all’indomani della sconfitta del Sì al referendum, ma si situi più in là nel tempo, al momento del naufragio del patto del Nazareno. Ricondurre il cambio di segno dell’azione riformista alla rottura del patto tra Pd e FI agevolerebbe una corretta lettura storico/interpretativa del rapporto tra renzismo e berlusconismo, ovverosia tra due forme positive – e per molti aspetti consequenziali – che ha assunto il riformismo italiano nel corso dell’ultimo venticinquennio. Ma formulare un’interpretazione storiografica d’insieme del renzismo e del berlusconismo – che le odierne e parallele crisi politiche, del Pd nel versante di sinistra del riformismo, di FI in quello di destra, risultano convalidare – consentirebbe altresì di definire i compiti politici nuovi e immediati che spettano allo schieramento riformista affrontare. Posto, difatti, il definitivo superamento della categoria destra/sinistra, la nuova linea divisoria, lungo la quale dovrà muoversi il partito trasversale dei riformisti italiani non potrà essere che quella di una scomposizione dei rispettivi fasci di forze politico-culturali eterogenee che si sono sin qui raccolte per un verso intorno al berlusconismo prima, per un altro verso intorno al renzismo poi, e di una loro ricomposizione creativa lungo l’asse del bipolarismo apertura/chiusura rispetto alla globalizzazione. Altro che sistema politico tripolare.

Alberto Bianchi

Il rischio che abbiamo di fronte a noi è proprio questo: che il nuovo assetto istituzionale che verrà avallato dalla Consulta, dopo la sberla del referendum istituzionale, renda di fatto fuorilegge non tanto un sistema elettorale al posto di un altro, ma un’idea possibile di modernizzazione del paese. Sintesi del problema: può esistere ancora la vocazione maggioritaria in un paese che ha scelto di essere governato più dall’algebra dei partiti che dalla forza delle leadership?