Il Foglio in piazza contro l'Unesco. Il futuro della Fondazione Einaudi
Al direttore - L’Unesco cambia nome al Muro del Pianto. Ma non sarebbe il caso di abolire l’Onu anziché il Cnel?
Giuliano Cazzola
Per l’Onu servirebbe una riforma culturale, non istituzionale. Nel frattempo facciamoci sentire da chi vuole cancellare 4.000 anni di storia israeliana: ci vediamo oggi alle 15 di fronte alla sede dell’Unesco a Roma, in Piazza di Firenze 27. Vogliono cancellare il Muro del Pianto, e allora il Muro del Pianto lo riproduciamo noi. Di fronte all’Unesco. Con le lettere dei nostri lettori. A dopo.
Al direttore - Le recenti vicende della Fondazione Einaudi di Roma, oltre a essere d’un qualche interesse in sé, possono forse aiutarci a capire un po’ meglio l’Italia di oggi. Sono stato direttore scientifico della Fondazione Einaudi dal 2001 al 2012. In quegli anni – passata ormai la sua età dell’oro, ch’era stata quella dei partiti –, la Fondazione viveva grazie ai (pochi) finanziamenti pubblici per le attività culturali, e a (altrettanto pochi) quattrini di privati per studi e ricerche. Era una vita grama ma dignitosa, e le permetteva di conservare intatto il proprio prestigio e di dare il suo contributo alla fiammella liberale – che nel nostro paese, si sa, non arde a ogni canto di strada. Quella stagione si è sostanzialmente chiusa con l’inizio della grande recessione. Il rivolo dei finanziamenti alla cultura si è ulteriormente disseccato; per tutte le istituzioni culturali – non certo soltanto per la Einaudi – è cominciato un periodo di gran difficoltà, che dura tuttora; e si è fatto sempre più evidente che quattrini per la cultura in generale, e quella liberale in particolare, non era disposto a darne più nessuno. Se non altro su Roma. E a meno che non vi fosse una contropartita immediata. Come ad esempio quella che alla fine dell’anno scorso cercava Silvio Berlusconi, convintosi (erroneamente) che la Einaudi potesse diventare un luogo di selezione della nuova classe politica del centrodestra. L’ipotesi Berlusconi è sfumata, a evitare la chiusura della Fondazione è giunto infine, nel gennaio di quest’anno, un avvocato Giuseppe Benedetto. Benedetto ha impegnato un’altra fondazione che allora guidava, la siciliana Famiglia Piccolo di Calanovella, a far fronte ai debiti dell’istituzione romana; ha impegnato se stesso a trovare i fondi necessari per ricapitalizzarla; e, forte di questi impegni, s’è preso la presidenza della Einaudi. Il curriculum dell’uomo, in verità, non era da presidente d’un prestigioso ente culturale. Grandi alternative però non ce n’erano. E l’illusione che le intenzioni almeno fossero giuste è stata inizialmente alimentata dalla nomina di due persone – queste sì, adatte – alla direzione scientifica e a quella generale dell’istituzione: Lorenzo Castellani e Pietro Paganini. Il tempo, purtroppo, non è stato galantuomo. Man mano che passavano i mesi, si faceva sempre più chiaro in primo luogo che il nuovo presidente aveva dell’ente una concezione proprietaria, e nemmeno ne rispettava lo statuto. Poi, che la Fondazione Piccolo non era in alcun modo in grado di far fronte ai debiti della Einaudi, né Benedetto dava il minimo segno di poter ricapitalizzare l’istituzione romana come aveva promesso. Infine, e soprattutto, che le attività culturali organizzate da Castellani e Paganini altro non erano che il contorno (possibilmente a costo zero) del piatto forte: la visibilità mediatica del nuovo presidente, e soprattutto il suo frenetico attivismo politico, finalizzato a realizzare il vaste programme d’un partitino neocentrista e governativo. Dalle parti, per capirci, di Verdini e Zanetti. Quando, dopo l’estate, il presidente d’onore Mario Lupo e io, in quanto consigliere d’amministrazione e presidente del comitato scientifico, abbiamo chiesto conto di tutto ciò, Benedetto ci ha risposto con alcuni numeri d’altissima acrobazia legalistica, riuscendo a eludere il confronto e a eliminare chiunque potesse limitare il suo campo d’azione. Per strada, così facendo, ha lasciato Castellani, Paganini, l’ideatore e organizzatore da venticinque anni delle scuole di liberalismo Enrico Morbelli, oltre a pezzi importanti del comitato scientifico e del consiglio d’amministrazione. In buona sostanza, tutti quelli che avevano reso l’Einaudi un’istituzione credibile e prestigiosa. Ho abusato fin troppo della tua pazienza, Direttore. Ma se da questa piccola vicenda vogliamo trarre qualche deduzione più generale, era necessario ripercorrerne la parabola. Di morali, in verità, ce ne sarebbero molte. Sulla fragilità del mondo culturale, ad esempio – sul suo vivere sempre all’orlo della morte per inedia. Sulla fragilità del mondo politico, talmente permeabile ormai che chiunque ci si può avventurare in cerca di fortuna. Sulla desertificazione delle culture politiche avvenuta negli ultimi venticinque anni. Sul fatto infine che in un paese come il nostro – nel quale le istituzioni sono sempre state fragili, ma ora sono a pezzi; e le ambizioni personali sono sempre state eccessive, ma adesso son fuori controllo – troppo spesso chi occupa una poltrona la vede soltanto come un mezzo per raggiungerne un’altra, più alta. E del senso della poltrona su cui siede, e di quel che c’è sotto, altamente se ne infischia.
Il paradosso però, se vogliamo tornare al caso specifico, è che la Fondazione Einaudi è quanto mai inadatta a farsi piedistallo di operazioni politiche. Si illudeva in questo anche Berlusconi. Che però, almeno, era Berlusconi, mica Benedetto. La Fondazione è un’etichetta di prestigio proprio per la sua imparzialità. Se nella sua bottiglia si versa il vino sbagliato, magari per qualche mese si riesce pure a darlo a bere a qualche ingenuo o distratto. In breve però, in un ambiente piccolo come quello dei palazzi romani, perfino i più sprovveduti si accorgeranno che il vino non è quello promesso. Nessuno lo vorrà più bere. L’etichetta non varrà più nulla. La cantina finirà col chiudere. E l’enologo si ritroverà seduto sul nulla.
Giovanni Orsina


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