Scissioni culturali, non politiche. E l'iconoclastia contro le chiese?
Al direttore - Giustamente ci si indigna per lo scempio di opere d’arte degli uomini dell’Isis. Ma i cantori della laïcité contro il fanatismo religioso dovrebbero avere almeno il pudore della memoria per l’identica furia iconoclasta di quello che l’abate Grégoire chiamò il vandalismo rivoluzionario scaturito dalla Rivoluzione francese. Basta visitare una qualsiasi chiesa italiana o francese con più di quattro secoli di storia per vedere statue o bassorilievi a cui è stata asportata la faccia a colpi di lancia e martello, o scendere nei depositi del Louvre pieni di statue a pezzi o decapitate. Il germe della distruzione è in ogni tentativo umano di mettere a posto il mondo “perché noi abbiamo ragione”. Cioè, per dirla con Ratzinger, di ogni secolarizzazione radicale e di ogni integralismo come reazione al vuoto della fede. Il che è esattamente il contrario di un senso religioso dell’esistenza e della storia.
Ubaldo Casotto
Al direttore - Giuliano Ferrara, ricorrendo all’efficace e sottile, ma feroce immagine degli “tsiprioti” – l’evocazione della gravissima crisi di Cipro incastonata nel nome di Tsipras – scrive (il Foglio del 26 febbraio) che dovremmo essere contenti di avere avuto la saggezza di scegliere, tra gli altri, un Monti che ci ha evitato la Troika. Non so se sia stato proprio quel governo a prevenire questo rischio o non piuttosto la famosa dichiarazione di Draghi sull’euro del luglio 2012 ovvero un apporto da ambo le parti, con il primo sicuramente inferiore al secondo. Del resto, non la Troika, ma il capogruppo della stessa – la Bce – si era già presentato a noi con l’ultimativa lettera della Bce del 5 agosto 2011, integrando la figura del tesoriere che impone le sue regole tassative al sovrano. Ma, poi, quando si sarebbe dovuto mettere mano alla ricapitalizzazione delle banche italiane e al risanamento di alcune di esse, chiedendo i fondi all’Esm, come con successo ha fatto la Spagna, ci si è fermati, da quel governo, nel “nonsipuotismo” per evidenti ragioni di sola immagine, accompagnate dal paralizzante timore dell’effetto-annuncio. Se, invece, si fosse agito, negli anni successivi avremmo avuto un grave problema in meno; anche oggi, mentre con grande lentezza si sta studiando l’istituzione di una sorta di “bad bank”, ne soffriamo. Non è poco nella colonna dei demeriti di un esecutivo che superano abbondantemente i meriti. Quanto agli “tsiprioti”, va detto che il compromesso (promesso insieme) raggiunto in sede Ue non è poi così negativo per la Grecia.
Angelo De Mattia
Prima o poi bisognerebbe dire che attorno alla parola austerity esiste un grande equivoco culturale. Il rigore non è di per sé giusto o sbagliato ma in certi passaggi è doveroso. Non si può scegliere. E’ come una medicina che viene somministrata da un medico al suo paziente, molto spesso per salvarlo. Ora si può dire tutto ma non che le medicine date alla Grecia per salvarsi fossero veleno. Il problema non è questo. Il problema è che il paziente greco dal medico è andato troppo tardi. E quando stai male e vai tardi dal medico, la tua sovranità non puoi che cederla a chi ha gli strumenti per curarti.
Al direttore - Bersani e Renzi sono nuovamente ai ferri corti, e non credo che questa volta si tratti di una tempesta in un bicchier d’acqua. L’Italicum e il Jobs Act “incostituzionali” sono la foglia di fico di un dissenso che ormai può preludere a clamorose rotture. Del resto, per le minoranze Pd non deve essere divertente sentirsi inutili fino all’irrilevanza politica. E nel Pd di Renzi il loro destino è questo. La sinistra interna vuole più collegialità e meno monocrazia. Ma la tradizione storica di cui essa è erede ha conosciuto due capi personali – Togliatti e Berlinguer – che certo non comandavano meno di Renzi. Solo che entrambe le leadership erano comunque sottoposte alle regole e alla sorveglianza della gestione oligarchica del partito. Quando Bersani si rifiuta di partecipare alla riunione dei gruppi parlamentari convocata dal presidente del Consiglio, in fondo dichiara di non voler più accettare una leadership che sposta il baricentro del suo potere fuori dal controllo oligarchico, trasferendolo da Largo del Nazareno a Palazzo Chigi. Tutti lo negano (Civati escluso), ma il rischio di una scissione a questo punto c’è. Perché, come diceva un vecchio comico milanese, “dura minga”.
Michele Magno
La scissione è culturale, prima che politica. Ma siccome i processi della politica non sempre coincidono con quelli della cultura, non ci sarà nessuna scissione importante. E il modo migliore per sintetizzare lo status politico della sinistra del Pd credo sia questo: esistere, esistere, esistere.
Al direttore - Tra i vari campi in cui l’Italia conferma d’esser strutturalmente “unfit” c’è quello delle riforme. In un momento in cui occorrono tagli orizzontali in tutte le voci del bilancio dello stato, è necessario che anche il comparto sicurezza e difesa facciano la loro parte. Ma un conto è comprare qualche jet in meno e un conto è unificare le forze di polizia smilitarizzandole tutte; un conto è ritirare carabinieri e finanzieri dal Kosovo e un altro è promuovere nei fatti una difesa europea. Meno uomini, preparati e coordinati meglio a livello transnazionale, con tecnologie all’avanguardia e addestrati ad agire nel pieno rispetto del diritto umanitario internazionale sono la risposta alle minacce vere o presunte di questi anni. Oggi, il mero aumento degli investimenti nella “difesa” servirebbe, servirà, ad arricchire quello che una volta era noto come “complesso militare industriale” e non a far diventare l’Italia “fit” per agire o reagire in alleanze internazionali o ad hoc. Ben venga quindi una “leadership coraggiosa che promuova un nuovo tipo di dibattito” ma, soprattutto, ben venga un dibattito che includa analisi e proposte che affrontino alla radice la dicotomia “ragion di stato” “Stato di Diritto” – il vero problema politico da porre sul piatto delle relazioni internazionali e scenari per il futuro. E’ noto che per la Difesa, la miglior difesa non è l’attacco ma restar al margine per sostenere la politica e la diplomazia nel loro lavoro. E’ questa la differenza tra la civiltà, le società aperte e i loro nemici.
Marco Perduca
Al direttore - Dopo mesi di attesa, ci siamo. Il decreto legge sulla “buona scuola” è alle porte. Come intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà stiamo in queste ore rivolgendo al premier e alla ministra Giannini un appello: non c’è buona scuola senza scuola paritaria. Siamo preoccupati, perché di parità non si è mai parlato in tutti questi mesi. Eppure i dati del ministero non lasciano dubbi: se domani chiudessero tutte le scuole paritarie lo stato dovrebbe spendere 6,3 miliardi in più all’anno. Nel 2015 i contributi statali ammonteranno a 472 milioni (erano 535 nel 2004!), continuando un trend di diminuzione che ha già provocato la chiusura di numerosissime scuole. Ciò non rende buona la scuola. Come dice la nostra “ragione sociale”, noi parlamentari sussidiari affermiamo il principio che pubblico è il servizio, non chi lo eroga. In forza di questo principio e di quanto previsto dalla legge voluta nel 2000 dal ministro Luigi Berlinguer (governo D’Alema), chiediamo al governo di dare finalmente piena attuazione alla parità scolastica. Per realizzare ciò, proponiamo uno strumento di democrazia fiscale, la detrazione dalla dichiarazione dei redditi della somma spesa per la scuola che i genitori scelgono per i propri figli. Questo è il modo migliore per riconoscere la ricchezza prodotta dal pluralismo educativo (adeguatamente verificato secondo gli standard previsti dalla legge Berlinguer) e che ciò sia realizzato con lo strumento fiscale più democratico e sussidiario che c’è. Di questo e di molto altro ancora ragioneremo in modo approfondito mercoledì 4 marzo, dalle 13.30, alla Camera, alla Sala della Regina, con il convegno “Scuola pubblica statale e scuola pubblica paritaria: passi condivisi per un cambiamento”. Il titolo dice tutto. Lo svolgimento chiarirà che non siamo contro nessuno ma a favore di un riconoscimento della passione educativa di tutti coloro che amano non la scuola, ma gli studenti, il singolo ragazzo o ragazza e il suo futuro. Il tempo è maturo: la parità non è più il terreno di uno scontro ideologico o politico, ma di incontro, per contribuire a formare quel capitale che chiamiamo “umano” perché è una unione tra esseri umani, adulti e ragazzi, che insieme cercano il meglio per la propria vita.
Non è una visione astratta. E’ la condizione senza la quale la scuola non sarà mai davvero buona.
Antonio Palmieri, Guglielmo Vaccaro, Raffaello Vignali, coordinatori Intergruppo Sussidiarietà


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