Il quantum della scala mobile era poca cosa, come l'art. 18
Al direttore - Il padre di Renzi è indagato. Ma finché non beccano lo stalliere, siamo tranquilli.
Maurizio Crippa
Al direttore - Sull’articolo 18 la penso come Bernardo Caprotti, il mitico patron di Esselunga: è solo una piccola parte, e forse l’ultimo dei problemi. In ogni caso, la sua abolizione serve a poco se non è accompagnata da relazioni industriali amiche della produttività: in primis, orari e salari aziendali flessibili. E’ il centralismo contrattuale e la cassa integrazione straordinaria che hanno ingessato il mercato del lavoro italiano, non le regole del licenziamento individuale (sottolineo individuale, perché solo l’anno scorso sono state avviate procedure di mobilità per circa novecentomila lavoratori). Su questi punti, anzitutto, va sfidato il conservatorismo della Cgil e delle sue protesi parlamentari.
Un conservatorismo il quale fa dire a Sergio Cofferati che, con l’emendamento del governo al Jobs act, viene cancellato perfino il reintegro nei casi di licenziamento discriminatorio (la Repubblica di ieri). Forse all’ex segretario della confederazione maggioritaria è sfuggito che, ai sensi dell’articolo 3 della legge 108/1990, ogni licenziamento discriminatorio rientra – a prescindere dalla dimensione dell’impresa – nella disciplina della tutela reintegratoria, in quanto esso è nullo. Ovvero, quando il furore ideologico si prende gioco della verità dei fatti.
Michele Magno
Grazie. Pro veritate aggiungo che i soldi in ballo nel referendum sulla scala mobile erano pochi, non decisivi. I capitalisti la pensavano così anche allora. Il socialista Craxi la pensò altrimenti e cambiò la storia. In meglio.
Al direttore - Ero piccolo quando mia mamma, operaia e anarchica (di rito carrarino) mi insegnò che quella scritta sulla croce INRI significava “Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum” (Gesù il Nazareno, Re dei Giudei). Da adulto cercarono di convincermi che “giudeo” fosse parola impronunciabile, da vecchio assisto al tentativo di due “furb da pais” di sottrargli, con successo, pure il soprannome di “nazareno”. Fin che posso lo chiamo Gesù, ma non so quanto durerà.
Riccardo Ruggeri
Giù le mani dai nazareni, evviva l’anarchia!
Al direttore - Il cardinal Kasper, intervistato dal Mattino, insiste nel ribadire che la dottrina sul matrimonio non si tocca, non cambia, ma che può essere “approfondita” perché “non è un sistema chiuso, ma una tradizione viva che si sviluppa, come ci ha insegnato il Concilio Vaticano II”. Da qui ne discende, dice a proposito dell’indissolubilità del matrimonio, che “bisogna verificarla in situazioni complesse”, ovvero che bisogna valutare caso per caso, all’insegna del discernimento pastorale. Bene. Ma questo non significa forse affermare che, in certe situazioni e a certe condizioni, l’indissolubilità del matrimonio può venir meno? A me pare di sì. E questo come si concilia con l’assunto che la dottrina non cambia? Inutile girarci intorno, impancandosi in sofismi teologici: un conto è lo sviluppo del dogma, per come lo intendeva il card. Newman e per come è stato inteso dal Vaticano II (quello vero, non quello “virtuale” di cui ha parlato Benedetto XVI), ovvero di un rinnovamento non contro né oltre ma nella tradizione, dove lo Spirito suscita modi e forme nuove per annunciare le stesse verità di sempre; altro è l’approccio di chi, alla Kasper, partendo dal basso e dalle situazioni contingenti, arriva pian piano a smontare di fatto la dottrina. Tertium non datur.
Luca Del Pozzo
Credo immodestamente di aver risolto il problema con la mia modesta proposta pubblicata oggi in prima. Se c’è matrimonio, no ostia. Ma se il matrimonio è finito, e al suo posto c’è una casta chiesetta domestica, allora, salvo seria e annuale verifica pastorale, anche episcopale, l’eucaristia come viatico può tornare, oltre le normali consolazioni spirituali.
Al direttore - Se il Parlamento non riuscirà a declinare in modo soddisfacente la politica dell’esecutivo, Renzi non ci penserà due volte ad andare a votare: così il come sempre documentato “pezzo” di Claudio Cerasa sul Foglio di mercoledì, 17. Certamente, non bisogna avere un sacro terrore di una competizione elettorale caricandone oltremodo i rischi; né, però, si può legare un tale monito a un discorso, quello del premier in Parlamento, prevalentemente affetto da presbiopia, almeno con riferimento ai gravosi e straordinari impegni da assumere nello scorcio dell’anno in tema di politica economica, dei quali – si pensi al “che fare” per la “sistemazione” del 2014 e per la Legge di stabilità 2015, per non parlare della polisemica flessibilità – non si è fatta menzione nel suddetto discorso. Affrontare le elezioni con una insostenibile legge elettorale (dunque, neppure con il non esaltante Italicum), che di necessità dovrebbe eleggere anche i senatori, mentre si è deciso di avviare una radicale riforma del Senato che sopprime questa elezione, accentuerebbe l’indeterminatezza della situazione italiana con la prospettiva di una inerzia decisionale per quattro mesi di campagna elettorale e di trattative postelettorali e costituirebbe la peggiore terapia possibile per la condizione dell’economia e della finanza pubblica. La stessa eventuale reiterazione della minaccia, che potrebbe in seguito diventare una pistola ad acqua, accentuerebbe sulle prime una immagine di continua, congenita instabilità, con tutto quel che ne consegue, a cominciare dalla speculazione. Molto meglio farebbe invece, il Premier, a sciogliere i nodi di queste settimane, da cui dipendono, essendone la necessaria base di partenza, anche i programmi proiettati nelle diverse centinaia di giorni a venire.
Angelo De Mattia


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