Un indiano a NY
Il favorito – ai Golden Globe, come attore comico – era Jeffrey Tambor, padre di figli grandi che annuncia la sua passione per il travestitismo (non lo vedremo che in gonna durante la prima e la seconda stagione di “Transparent”). Il vincitore è stato Gael Garcia Bernal, direttore d’orchestra con giacche damascate nelle due stagioni di “Mozart in the Jungle”. Aziz Ansari ha rubato la scena a entrambi, con la migliore “instant gag”. Nel senso di non prevista dalla scaletta dei Golden Globe: per far stampare una finta copertina di libro con il titolo “Perdere con dignità un Golden Globe contro Jeffrey Tambor” un po’ di tempo c’è voluto. Meno per sventolarla davanti alla telecamera che inquadrava le facce dei candidati.
Il primo riferimento seriale solitamente sfoderato per “Master of None” (da Aziz Ansari recitata e scritta, si trova su Netflix) è Louis C. K., il secondo è Jerry Seinfeld. Non ha la cattiveria del primo, neppure il gusto per l’assurdo del secondo. Stranamente, per una serie celebrata sul New Yorker per la sua assoluta modernità – “sembra venire dal futuro”, scrivono – ricorda una vecchia serie britannica cominciata nel 1998 con il titolo “Goodness Gracious Me”. Il titolo viene da una canzone che Sophia Loren e Peter Sellers, per l’occasione medico indiano con pesantissimo accento, cantavano nel film “La miliardaria”, anno 1960. Gli sketch prendevano in giro i genitori indiani (quelli convinti che tutto arrivi dall’India, William Shakespeare e Babbo Natale inclusi), i corteggiatori indiani (quelli che al primo appuntamento dicono cose tanto sgradevoli da far scappare la ragazza all’istante), i nuovi ricchi che sostengono di chiamarsi Cooper e portano solo maglioni Ballantyne (invece sono indiani e si chiamano Kapoor).
La New York di oggi è diversa dalla Londra di venti anni fa, anche l’accento “goodness-gracious-me” si è parecchio indebolito. Non è più questione di integrarsi: il giovanotto di origine indiana ha i problemi di tutti i trentenni: il lavoro, e cosa fare da grande, che non necessariamente coincidono. Parlando di lavoro, fa provini come attore. Uno su Skype, e siccome non ha un buon collegamento da casa urla “il contagio è iniziato” in una caffetteria, contorcendosi da indemoniato. Ci aspetteremmo una scena da “Guerra dei mondi” radiofonica, alla Orson Welles, invece tutti restano tranquilli davanti al loro muffin. Parlando di cosa fare da grande – per esempio, se smettere di essere figli e diventare finalmente genitori – si intrecciano i primi due episodi della serie. Il primo parte da un preservativo rotto e procede con un devastante ritrattino dei giovanotti (gay) che alla festa dei bambini si buttano sui giochi per bambini, sgomitando e cacciando i bambini dalla casa gonfiabile. Di pari passo, un altrettanto divertente ritrattino dei piccoli tiranni che vogliono lo yogurt gelato (guai al gelato vero) e scelgono per te anche il gusto. Le figlie di Louis C. K. in “Louie” sono invece più mature del padre, e ne sopportano le nevrosi con pazienza. Il secondo racconta le storie dei genitori emigrati. Oltre che dell’indiano Aziz, del suo amico cinese di Taiwan: “Mio padre faceva il bagno nel lago, ora ha un’automobile che gli parla”. Il cinese però all’automobile non risponde, come non risponde al figlio. Va meglio all’indianino: non solo papà ogni tanto conversa, ma tutte le famiglie americane che incontra lo vogliono adottare. Concordano su una cosa, dopo aver visto l’ultimo “X-Men”: “Oggi nei film ci sono troppi personaggi”. Verrebbe da rispondere: nelle serie ci sono solo i personaggi necessari.


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