Falsari seriali
Oggi anche il cretino è specializzato”. Lo garantiva Ennio Flaiano in tempi pre-internet, pre-social, pre-grillini, pre-profeti di sventure climatiche. Si specializzano anche le serie, cercando nuovi paesaggi e nuove ambientazioni. Padri che quasi all’età della pensione vogliono collant, gonnelloni a fiori, maglioncini rosa, collane e una molletta per tenere a posto i capelli? Ecco “Transparent” di Jill Solloway, titolo che appunto indica il genitore travestito e il suo coming out. Il successo ha procurato imitazioni, e ora gli attori transgender protestano quando questi ruoli vanno ad attori “cisgender” – così impone il gergo della correttezza politica: siamo noi che non osiamo varcare i confini e restiamo prigionieri del genere. Gli altri attori un po’ rosicano (e le altre minoranze pure, ma guai a farlo notare: in materia di accettazione e visibilità, il transgender ha battuto ogni record).
Al di qua della trasgressione, abbiamo una mini-serie focalizzata sul balletto (“Flesh and Bones” di Moira Walley-Beckett), una serie focalizzata sulla musica classica (“Mozart in the Jungle”, di Paul Weitz, Roman Coppola, Jason Schwartzman) e ora una serie focalizzata sul mondo dell’arte, con il titolo “The Art Of More”. Le dieci puntate della prima stagione erano dal 19 novembre scorso su Crackle, piattaforma streaming appartenente al gruppo Sony. Imitando Amazon e Netflix, ha deciso di buttarsi nella produzione. Primo tentativo, il programma comico con Jerry Seinfeld “Comedians in Cars Getting Coffee”, che per il 30 dicembre si è aggiudicato il più prestigioso degli ospiti, Barack Obama.
La serie artistica riesce meno bene. Eppure di storie da raccontare ce ne sarebbero, dai falsari ai furti su commissione alle autenticazioni generosamente rilasciate. Ma lo sceneggiatore Chuck Rose (viene dal teatro) e Dennis Quaid che qui fa l’attore oltre che il produttore sembrano aver vissuto gli ultimi decenni su pianeta del tutto sgombro di serie tv. Gli elementi per i dramma ci sarebbero, manca una scrittura adeguata. E pesa il rispetto verso il Grande Tema: lo stesso che ha portato al disastro film come “La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore (dal quale non ci aspettavamo niente, e niente abbiamo avuto, se non una manciata di recensioni che lo celebrano come un capolavoro di raffinatezza, segno del ricatto esercitato dai quadri celebri) e “In trance” di Danny Boyle (da cui ci aspettavamo molto, e purtroppo di mezzo c’era pure l’ipnotismo).
“The Art Of More” – incredibilmente rinnovata per la seconda stagione – vorrebbe avere il suo risvolto d’attualità. Comincia nel 2009 a Baghdad: un soldato americano ruba gioielli al museo, con l’aiuto di un complice reclutato sul posto. Ritroviamo il giovanotto in una casa d’aste a New York. Sta per essere battuta una collezione di macchine d’epoca, tra cui la Ferrari appartenuta a Steve McQueen (ogni episodio ruota attorno a un oggetto davvero messo all’asta di recente). Molte belle donne, alcune decorative e altre del mestiere, mentre il vecchio complice si fa vivo. C’è un container di reperti preziosi in arrivo, e una famiglia in Iraq da mettere in salvo. Troppi luoghi comuni e troppe scene appena abbozzate, fidando sull’esotismo dell’ambientazione. Ma per un pubblico che ha visto “Transparent”, che è stato in prigione con “Orange is the New Black”, che ha palpitato per “Scandal”, che ha visto tutto “Breaking Bad”, un quadro falso, un’asta truccata, un giovanotto nato povero a Brooklyn e smanioso di entrare nel mondo dei collezionisti non sono un’attrattiva irresistibile.


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