Facce rìde

Mariarosa Mancuso
“The Louis C. K. deal” è fatta di stand-up comedy e momenti di vita quotidiana (esilaranti)

    Il New York Magazine chiede a una sessantina di comici “qual è la battuta che ti ha cambiato la vita?” – riscrittura pomposa del “quando hai deciso che da grande volevi far ridere? – e nella lista non compare Louis C. K., titolare della serie “Louie”. Clamorosa dimenticanza, ai limiti dello sgarbo, verso il campione del “self-deprecating humour”: quel modo di far ridere che trova (ampio) materiale nelle proprie debolezze e nelle proprie manie (altri ne ricavano poemi, e quelle sì che son sciagure). Lo faceva Woody Allen nei primi film, quando era almeno un po’ verosimile che facesse battere il cuore alle giovanette; lo faceva Jerry Seinfeld nella serie “Seinfeld”; lo faceva Larry David, coautore di “Seinfeld” e poi brontolone-in-chief negli episodi di “Curb Your Enthusiasm”.

     

    “The Louis C. K. deal” (C. K. mima la pronuncia del cognome ungherese “Szekely”) è l’accordo stipulato dal comico con la tv via cavo Fx che manda in onda il programma. Invidiatissimo dai colleghi, vuol dire “pochi soldi ma niente censura”. A qualcosa bisogna pur rinunciare, e la forza della serie – diretta, scritta, recitata, per un po’ anche montata con un MacBook pro – non sta nello sfarzo produttivo. Per arricchire il cast, corrono in soccorso colleghi come Ricky Gervais (lo strizzacervelli più odioso che esista, fornisce sollievo solo quando si addormenta durante le sedute) o amici come Sarah Silverman.

     

    Libero di sperimentare – il “mettersi in piazza” fa parte del patto con lo spettatore, e non ha niente a che vedere con certe confessioni prive di sugo narrativo – Louis C. K. alterna sketch di vita quotidiana a momenti di stand-up comedy. Ha 46 anni, un’ex moglie, due figlie, la sera va nei locali per praticare la comicità più rischiosa: un uomo e il suo monologo. Comunque meglio sul palco, dove un certo successo lo riscuote, che fuori: Louie è inadeguato a tutto, quando cerca di rimediare peggiora le cose. Colto da un attacco di sciatica in un sexy shop – indicava un articolo alto sullo scaffale, dopo una chiacchierata durante il poker: siparietto ricorrente che dir pecoreccio non rende l’idea, bisogna ascoltarli e goderseli – viene soccorso da una vecchietta che molla il bastone e lo carica su un taxi. Dal medico, si sente dire: “La schiena è in ritardo sull’evoluzione, l’hanno progettata per camminare a quattro zampe. La prossima volta venga da me con una malattia seria”. La risata non è sempre garantita, non di prima mano almeno: come Sarah Silverman, come l’agrodolce, Louis C. K. è un gusto che si apprezza da grandi. Lui lo sa: alla fine della quarta stagione, ne ha promesso una più “laugh-centric”, con le battute al centro della scena.

     

    Promessa mantenuta. Il primo episodio (dal 9 aprile in America, in Italia le precedenti erano su Fox) si intitola “Pot Luck”, il pranzo in cui ognuno porta qualcosa. Louie va alla festa sbagliata, con il pollo fritto (volevano un dolce). La festa giusta è da una coppia di lesbiche con madre surrogata al nono mese. La signorina è triste, Louie l’accompagna a casa, il sesso è goffo ma bastante per provocare la rottura delle acque. Le due genitrici paganti – avevano programmato un parto naturale e tenevano la gestante lontana dalle schifezze – sognano un coltello elettrico che pareggi lo sgarbo.