Cattive maniere

Mariarosa Mancuso

Scrivete bene come Flaubert, rifate “Carnage” anche meglio e non temete i remake. Ecco “The Slap”

Il moccioso è insopportabile. Litiga con gli altri bambini, strappa i fiori dalle aiuole, rifiuta di mollare la mazza da baseball quando viene eliminato secondo le regole del gioco (“three strikes and you are out” era anche la regola di Bill Clinton, che al terzo reato grave sospendeva gli sconti di pena). I genitori trattano Hugo come un principino – mamma lo allatta ancora, in pubblico durante il barbecue di compleanno, e solo così il cinquenne capriccioso si placa per un po’.

 

Finché succede l’indicibile: il cugino del festeggiato molla uno schiaffone al moccioso, che scappa frignando dai genitori. Anche gli ospiti meno libertari in materia di educazione ammutoliscono per l’imbarazzo, i padroni di casa si scusano per il comportamento del cugino manesco. La festa è rovinata, pure il dopofesta. Tornando a casa tutte le coppie attaccano briga nelle rispettive macchine: l’incidente scatena insoddisfazioni, rancori e malumori soffocati da mesi.

 

Cominciava così “Lo schiaffo”, bellissimo romanzo di Christos Tsiolkas, nato a Melbourne da genitori greci (in Italia lo pubblicò Neri Pozza nel 2008). Comincia così anche la miniserie di otto puntate in onda dallo scorso 12 febbraio sulla NBC, rete televisiva con il logo a forma di pavone e la sede al Rockefeller Center di New York. Quella dove lavora Liz Lemon-Tina Fey in “30 Rock”, combattendo con il boss Alec Baldwin (precedente esperienza, un forno ventilato) e l’usciere tutto Bibbia e televisione che a guardarlo bene si configura come meglio riuscito idiota contemporaneo. Almeno per noi che abbiamo odiato Forrest Gump.

 

Tra il romanzo e questa serie americana – primo episodio diretto da Lisa Cholodenko, la regista dei raccomandatissimi “Olive Kitteridge” e “I ragazzi stanno bene” – c’è stata una bella serie australiana. Nel remake – si chiamano così in un’industria dello spettacolo matura, che non rivendica originalità quando non serve – dal cast viene ricuperata l’attrice Melissa George, mamma permissiva della piccola peste. Il nome può essersi perso nella memoria, il resto no: era Laura la gattamorta che ogni settimana si sedeva sul lettino del dottor David Byrne nella serie “In Treatment” (altro remake, dalla serie israeliana “Be Tipul”: i bravi non si offendono).

 

Lo schiaffo arriva quando abbiamo già conosciuto la famiglia multiculturale e gli ospiti alla festa. Figlio di genitori immigrati dalla Grecia, Hector fa l’architetto al comune, sta per compiere 40 anni, va a letto con la baby sitter. Sua moglie Aisha, angloindiana, lavora come veterinaria. Il cugino Harry è ricco, ha una moglie vistosa, viene trattato con sufficienza (ancor prima che il fattaccio accada) dall’artista padre dello schiaffeggiato. Anouck, amica fin dall’infanzia di Aisha, lavora in televisione e si presenta con il toy boy conosciuto durante un provino. “Quando l’ho visto ho pensato ‘fa’ che abbia il dono della parola’”, sussurra alle signore in salotto, mentre i maschi in giardino stappano le birre. Gli attori rispettivi sono Peter Sarsgaard, Thandie Newton, Zachary Quinto, Uma Thurman (ed è solo l’inizio della festa).

 

Lo sceneggiatore di “The Slap” si chiama Jon Robin Baitz, conosciuto finora per “Brothers & Sisters – Segreti di famiglia”. Dal barbecue middle class nella periferia di Melbourne sposta la scena a Brooklyn (il cugino ricco che abita nel New Jersey arriva con il Suv, già si mette dalla parte del torto). Dopo la sigla, che omaggia la piantina della metropolitana newyorchese, il primo momento di tensione lo procurano i nonni che regalano ai nipotini un viaggio in Grecia (“vedere il Partenone, mangiare il polpo di scoglio”) senza preoccuparsi degli impegni di Aisha.

 

“The Slap” sta zona “Carnage”, pièce francese di Yasmina Reza e film americano di Roman Polanski. Lì erano i figli, a essersi menati tra di loro: hanno già fatto pace, quando i genitori inneggianti al dialogo – due di loro, almeno, gli altri sono convocati controvoglia – iniziano un furioso litigio. Questa “comedy of manners” (cattive maniere, perlopiù) è strutturata in otto episodi, uno per ogni personaggio. Il primo inquadra Hector, a tratti la voce fuori campo entra nei suoi pensieri, appena smette però cadiamo nella trappola, e il resto sembra una neutra descrizione dei fatti. Un modo di raccontare che riusciva particolarmente bene a Gustave Flaubert, in “Madame Bovary” soprattutto.

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