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LA SITUA - DIBATTITI UNIVERSITARI

I cento numeri di Situa e la voce degli universitari sulle vere minacce per l'Italia

Abbiamo chiesto agli studenti universitari quali sono le principali minacce di fronte alle quali si trova l'Italia

La Situa, la newsletter curata dal direttore Claudio Cerasa, in uscita ogni sabato, è arrivata il 22 novembre a una cifra tonda: cento. Situa cerca di raccontare l’attualità senza fronzoli, con spunti, idee, segnalazioni, fotografie dell’attualità e della contemporaneità semplici, facili da digerire. Situa però, da 100 puntate, ha anche un compito più ambizioso: scommettere sulla classe dirigente del futuro, ovvero gli universitari, e dare loro la possibilità, ogni settimana, di esercitarsi su un tema. Da cento numeri, Situa pubblica i migliori interventi degli universitari che scrivono al Foglio. La scorsa settimana abbiamo chiesto agli studenti universitari di segnalarci quali sono, per loro, le principali minacce di fronte alle quali si trova l’Italia. Sempre con la stessa formula: 2.000 battute. Qui i migliori testi. Qui per scrivere a Situa: [email protected].

 


 

“Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così”. In questo modo il genio ironico di Elio e le Storie Tese prendeva in giro l’Italia (la famosa “Terra dei cachi”) e l’atteggiamento facilone degli italiani, campioni nel giustificare i problemi con la vuota retorica del “noi siamo fatti così ma abbiamo tanto cuore”. Scorciatoia molto comoda per fuggire da tutte le storture che rovinano il nostro paese. Quali storture? Potrei parlare di un’Italia con una spesa pubblica fuori controllo e mal gestita, e che perciò mantiene una delle pressioni fiscali più alte dei paesi dell’Ocse. Oppure potrei affrontare il tema di un sistema pensionistico non più sostenibile che pesa sempre maggiormente sui giovani e su chi produce, un paese dove il reddito medio di un pensionato è più alto di quello di un lavoratore. Il nostro è uno stato che vede una sanità pubblica al collasso, una burocrazia castrante e un sistema scolastico vetusto, scoraggiante e troppo scollegato alle esigenze dei tempi odierni. Non è un caso che, secondo l’ultimo rapporto Ocse, il 37 per cento degli adulti italiani sia un analfabeta funzionale e non riesca a comprendere un testo come questo. Abbiamo una delle percentuali di laureati più basse tra i paesi più sviluppati, la crescita economica è ormai un lontano miraggio e assistiamo a una sempre maggiore percentuale di astensionismo. 

Ecco quindi qual è la più grande minaccia per l’Italia: la rassegnata accettazione del lento declino che colpisce il paese. Abbiamo deciso di staccare la spina a un corpo sì malato ma non ancora morto, interiorizzando come inevitabile qualcosa che inevitabile non è. Si può e si deve fare qualcosa per cambiare rotta, ma ci vuole il coraggio e la consapevolezza che alcune misure non saranno popolari ma semplicemente necessarie. L’unico modo per fermare il declino è svegliarsi dal torpore a cui siamo stati condannati, serve una reale presa di coscienza di parte della popolazione, in particolare quella più giovane, che possa guidare il paese verso un nuovo rinascimento. Una fetta di nazione che smetta di chiamare “cuore” ciò che non è altro che rassegnazione. 

Alessandro Bignami
corso di laurea in Ingegneria informatica, Università di Trento

 

Di minacce ce ne sono molte. E, soprattutto, ce ne sono state altrettante in passato. E il dettaglio che alcune di esse ce le siamo procurate da soli non è affatto un dettaglio. L’Italia è un unicum dal punto di vista mondiale, lo ricordava in un bel video su YouTube l’imprenditore Oscar Farinetti: non le manca nulla, ha venti e mari buoni, che alimentano la produzione del cibo migliore. Eppure sembra che quella “donna italica” – così spesso rappresentata dalla satira del Novecento – sia invecchiata, e invecchiata anche molto male. Come si può leggere tra le righe di questa metafora, è piuttosto diffusa la cultura del piagnisteo, così come un profondo immobilismo nelle scelte, nonostante la vasta e variegata offerta presente sul mercato politico. Siamo una nazione “anfibia” che, quanto prima, dovrebbe trovare lo slancio necessario per uscire dalla propria condizione. Intanto, l’immigrazione irregolare non si ferma e continua la propria strada, mentre l’Europa, su questo fronte, non muove un muscolo. I ragazzi – oggi i più energici e ricchi di voglia di fare – che alla chiusura dell’Ottocento si dedicarono all’unità, oggi vanno all’estero.

E allora, qual è la minaccia più grande per l’Italia? Non proviene da lontano, non arriva soltanto dai mercati, dalle crisi geopolitiche o dalle ondate migratorie. La minaccia più grande è interna: è la rassegnazione come metodo, il “tanto non cambia nulla” che si tocca ovunque. E’ la sfiducia nello stato, nelle istituzioni, persino nei concittadini. E’ l’abitudine a piangersi addosso invece che pretendere – e costruire – serietà, competenza e responsabilità. Finché ciò resterà il sottofondo del discorso pubblico e privato, ogni risorsa italiana – economica, culturale, umana – sarà come acqua versata sulla sabbia. La vera minaccia, prima ancora delle altre, è un paese che ha smesso di credere in sé stesso, e di cui non sarebbe affatto fiero un presidente della Repubblica come Cossiga, il quale un tempo disse rivolgendosi ai ragazzi: siate fieri del vostro paese e non dimenticate di servire la patria ogni giorno. E questo, francamente, è un peccato. 

Davide Castelli
Università degli Studi di Milano

Elisa Scardino 
Corso di laurea in Scienze dell’educazione e della formazione - UniPegaso 

 

L’Italia oggi affronta sfide complesse e intrecciate, ma tra tutte emerge una minaccia che rischia di condizionare profondamente il futuro del paese: la fragilità economica e sociale. Non si tratta solo dei numeri del pil o del debito pubblico, ma delle conseguenze reali sulla vita quotidiana: contratti precari, disoccupazione giovanile, divari tra Nord e Sud, ridotta mobilità sociale e un senso diffuso di incertezza che attraversa famiglie, comunità e istituzioni. Questi fattori minano la coesione sociale e riducono la fiducia nelle istituzioni, rendendo difficile costruire progetti di vita stabili.

A tutto ciò si aggiunge la complessità della politica italiana: governi instabili, conflitti interni e decisioni lente rallentano riforme fondamentali e impediscono strategie coerenti. La burocrazia spesso blocca iniziative innovative e il cambiamento richiesto dalla società corre più velocemente di quanto lo stato riesca a reagire. Questo alimenta sfiducia e scoraggiamento, soprattutto tra i giovani che, pur desiderosi di mettersi in gioco, faticano a trovare opportunità concrete e a immaginare un futuro sicuro.

Anche la trasformazione tecnologica rappresenta una sfida significativa. L’Italia rischia di rimanere indietro se non investe in formazione, competenze digitali e innovazione. Il divario tra chi ha accesso agli strumenti e alle conoscenze e chi resta escluso può ampliare le disuguaglianze, influenzando lavoro, produttività e sviluppo economico. Innovazione, startup e talento possono diventare leve di crescita solo se supportate da politiche lungimiranti, infrastrutture adeguate e istruzione efficace. La vera minaccia non è un singolo evento, ma l’insieme di fragilità economiche, politiche e sociali che si rafforzano a vicenda. Superarle richiede investimenti mirati, equità e partecipazione civica. Solo così l’Italia potrà costruire un futuro solido, competitivo e inclusivo, dove le opportunità non siano privilegio di pochi ma diritto di tutti. Riflettere oggi su questi rischi significa prepararsi a un domani plasmato con visione, coraggio e responsabilità collettiva, in cui ciascuno possa contribuire attivamente al cambiamento e alla crescita del paese.

L’Italia è malata. Soffre di una patologia lenta, silenziosa, degenerativa, potenzialmente letale. Pur essendo nota a tutti, si fa ancora troppo poco per prevenirla. E non c’è cosa più deleteria del non affrontare il problema prima che sia troppo tardi, soprattutto quando la cura non sembrerebbe conosciuta. Quello che vediamo non è altro che il sintomo di uno stato patologico ben più complesso e, ahimè, vasto. Ogni anno centinaia di migliaia di giovani smettono di credere nel proprio paese e decidono di emigrare in cerca di fortune. Rinunciano agli amici, agli affetti, al calore insostituibile della propria famiglia. Accettano di partire perché sì, tutto sommato, gli amici si trovano e una ragazza pure, la famiglia la si può vedere saltuariamente, ma delle opportunità lavorative appaganti, uno stipendio degno e, in generale, una qualità della vita alta no, non le si può trovare in Italia. L’emorragia di giovani è un fenomeno in continua crescita. A testimoniarlo sono le avvilenti “analisi del sangue” svolte annualmente sull’Italia dai vari centri studi. Da decenni si perdono i migliori giovani, quelli che, secondo un’indagine condotta dalla Fondazione Nord-Est sugli anni 2011-2023, equivarrebbero a un capitale umano di 134 miliardi di euro. Parliamo di poco più di due terzi di fondi del Pnrr e di sette leggi di bilancio! E a beneficiarne sono i paesi che sanno accoglierli, avvantaggiandosi del loro talento. Ma il sintomo rende esplicita una malattia latente le cui cause sono, tuttavia, rese note dai dati: salari bassi, precarietà, scarsa meritocrazia, poche opportunità, onerosità burocratica e fiscale, servizi inefficienti. Dei buoni medici saprebbero quanto è importante l’intervento tempestivo per sconfiggere la malattia. Le “analisi” ci sono, i medici pure. Finché anche i politici non faranno il proprio “Giuramento di Ippocrate”, l’Italia continuerà a perdere sangue. Partiamo, dunque, dallo scegliere dei buoni politici, proprio come sceglieremmo dei buoni medici. 


Pierpaolo Carmine Beccarisi

double degree in Governo, Amministrazione e Politica e Relazioni Internazionali, Luiss Guido Carli e Université Libre de Bruxelles