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A proposito del centro in politica
Abbiamo chiesto agli studenti universitari se un futuro al centro è possibile, o se il centro deve scegliere da che parte stare
Abbiamo chiesto agli studenti universitari se un futuro al centro è possibile, o se il centro deve scegliere da che parte stare. Scrivete anche voi, in duemila battute, a situa@ilfoglio.it. I migliori testi degli studenti universitari saranno pubblicati (qui trovate tutti gli articoli degli studenti pubblicati in questi mesi). Se non sei ancora iscritto a La Situa puoi farlo qui, ci vuole un minuto, è gratis.
Durante la Prima Repubblica il centro governava. La DC, la “balena bianca”, parlando a quasi la maggioranza della popolazione, riusciva a comprendere al suo interno dai più conservatori ai più riformisti. Quasi! Perché, dal fallimento della cosiddetta “legge truffa” in poi, la DC si è valsa dell’appoggio pivotale di altri partiti – prima i “laici”, poi il PSI – per raggiungere la maggioranza utile a governare. In questo equilibrio, escludendo le ali estreme, ha garantito quella vocazione “centrista” che ha caratterizzato molti degli italiani primorepubblicani. Anche durante la cosiddetta Seconda Repubblica bipolare il centro è stato decisivo. O meglio, lo è stato l’elettore mediano. Entrambe le coalizioni (non a caso centrodestra o centrosinistra) hanno dovuto guardare al centro per poter vincere, ossia hanno dovuto parlare, capire e convincere quell’elettore di centro orfano della Prima Repubblica. Risiedeva tutto lì: convincere l’elettore mediano a saltare il “muro di Arcore”, a volte a favore di una, a volte dell’altra. Oggi molti di loro sono in Azione o Italia Viva. Per quanto detto sopra, nella prossima elezione potrebbero essere decisivi. Da decidere però se restando indipendenti oppure no. Con l’attuale legge elettorale, un’alleanza garantirebbe maggiore rappresentanza, ma anche minore capacità di “ricatto”. Viceversa, restando indipendenti, con due schieramenti perdenti, garantirebbero l’appoggio per governare. In ogni caso servirà responsabilità. Capacità di “ricatto” vuol dire essere più decisivi in termini di programma di governo. Tradotto: una coalizione minima vincente tra il centrodestra e Azione sarebbe la più auspicabile, in termini di convergenze programmatiche, solo con l’esclusione di Salvini. Potrebbe anche succedere che il centrodestra riuscisse a conquistare l’elettore mediano senza ricorrere ad alleanze. Sarebbe, in fondo, una rediviva grande “balena bianca”.
Pierpaolo Carmine Beccarisi
double degree in Governo, Amministrazione e Politica e Relazioni Internazionali presso Luiss Guido Carli e Université Libre de Bruxelles
L’area di centro non deve restare autonoma. La conferma è avvenuta non da volatili sondaggi di qualche agenzia sondaggistica minoritaria, ma dalle elezioni europee, a cui molti italiani mancano all’appello.
Sul solco dei partiti da prefisso telefonico italiani, avviene — ed è avvenuta — molta più bagarre rispetto ai partiti di maggioranza al timone del governo.
Alle europee Calenda si mise in proprio con la sua lista “Azione Siamo Europei”, mentre Renzi mise su un bel programmino con Magi e altre formazioni.
Il risultato? Nessuna delle due riuscì ad avvallare la soglia di sbarramento sancita dalle leggi elettorali italiane, per le elezioni della Camera europea, perdendo, a grosso modo e algebricamente parlando, quattro o cinque eurodeputati terzopolisti.
Calenda gode della mia stima. Ma lui da solo non basta a tenere in piedi un progetto politico di medio respiro — o quantomeno non nell’immediato. Azione è un partito relativamente giovane, nato sul finire del 2019 ed entrato in Parlamento nel 2022. Ha mostrato dei limiti, certo; tuttavia, sono necessari diversi anni — soprattutto se si vuole conquistare i voti degli elettori centristi, che sono tra i più pignoli — per affermarsi come soggetto autonomo. E questo, a mio avviso, non è l’obiettivo prefissato.
Tutti i partiti di quell’area, definita spesso come una prateria — ormai arida, bisogna dirlo — sono divisi dai personalismi e dalle leadership. Ed inevitabilmente tutti quei voti dell’elettorato liberale, riformista e repubblicano passeranno ad altre liste della destra o fuori dalla destra.
Del resto, non è tutto anti-Stato quello che il centrodestra comizia. Come racconta il direttore Cerasa su Il Foglio di mercoledì, l’effetto Trump in Italia e in Europa è stato tutt’altro che uno tsunami atto a spazzare via quel moderatismo che è riuscito a creare l’unione dei Paesi europei che oggi conosciamo. Alle ultime elezioni hanno primeggiato, nei Paesi comunitari, unicamente partiti politici fieramente europeisti — anche di centrodestra — mettendo all’angolo i populisti.
Sintomo che c’è voglia di una politica priva di slogan feroci, premiata dagli elettori che sognano un dibattito del buon governo. Una politica che non urla, ma convince.
Davide Castelli
università degli Studi di Milano
Con la sua discesa in campo nel 1994, Berlusconi “inventò” il bipolarismo, o perlomeno così gli piaceva raccontare. Raccogliendo l’eredità e il culto personalistico craxiano, Silvio B. fu in grado di proporre un’alternativa, almeno a parole, alla tanto temuta “gioiosa macchina da guerra” guidata da Achille Occhetto. Da quel momento in poi è stato praticamente impossibile, salvo rare eccezioni, riuscire ad emergere con una proposta definibile di centro (rispedisco al mittente qualsiasi fantasticheria per la quale Forza Italia sarebbe un partito di centro).
Non mi riferisco a quella specie di porcheria renziano-blairiana chiamata Terza Via, bensì ad un soggetto con un programma politico che sia lontano dai due populismi di destra e sinistra e che produca proposte basate sul raziocinio e sul pragmatismo, senza cedere il timone ad una qualche, non meglio precisata, ideologia.
Dopotutto sono millenni che i latini ci suggeriscono la superiorità della via di mezzo, come testimoniato dall’aristoteliana “in medio stat virtus” o dall’oraziana “aurea mediocritas”. Tuttavia il bipolarismo non ha fatto altro che alimentare lo scontro e la faziosità del dibattito politico; pur non essendo un buon sistema per il bene del Paese, è un ottimo modo per spartirsi il potere e ciò che dal potere consegue.
Ecco quindi che diventa fondamentale spezzare il gioco del bipolarismo, rimanendo saldi ai propri principi e correndo da soli alle elezioni, cercando di convincere quella grande fetta di popolazione che oggi non trova collocazione all’interno dello scacchiere politico.
Questo non vieta ad una forza politica “centrista” di scendere a compromessi post elezioni con altre forze per formare un governo, ma solo nel caso in cui la forza centrista riuscisse in qualche modo a rendersi indispensabile e quindi a dettare l’agenda politica del governo.
Il vero problema che ha caratterizzato i protagonisti di quest’area negli ultimi anni (per intenderci, il cosiddetto Terzo Polo) è che questi partiti sono figli, più o meno sani, della seconda repubblica e di conseguenza del culto del leader maximo come unica autorità da seguire e a cui obbedire. Partiti personalistici che possono certo fare bene all’ego dei segretari ma poco possono giovare alla situazione del Paese e dei suoi cittadini. In un panorama politico come quello odierno l’unica maniera per riscuotere vero successo elettorale è quella di costruire dal basso, a partire dalla presenza sui territori e dal dialogo con le forze civiche più affini. Il mio augurio e auspicio è che “il centro” diventi meno il partito della giacca e della cravatta agli incontri negli alberghi di lusso e più il partito dell’Italia che produce e di chi non si arrende al lento declino a cui va incontro il nostro Paese da ormai troppo tempo.
Alessandro Bignami
Università di Trento, corso di laurea in Ingegneria Informatica
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