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La situa - dibattiti universitari

A proposito di quello che manca al Partito democratico

Abbiamo chiesto agli studenti universitari, in occasione dei diciotto anni del Pd, di ragionare con noi su quello che manca al Pd per essere davvero grande

Abbiamo chiesto agli studenti universitari, in occasione dei diciotto anni del Pd, di ragionare con noi su quello che manca al Pd per essere davvero grande Scrivete anche voi, in duemila battute, a situa@ilfoglio.it. I migliori testi degli studenti universitari saranno pubblicati (qui trovate tutti gli articoli degli studenti pubblicati in questi mesi). Se non siete ancora iscritti alla Situa potete farlo qui, ci vuole un minuto, è gratis.

   


     

Il Pd diventa maggiorenne. Il progetto politico delle teste pensanti dell’allora fu DS, con il patrocinio di Romano Prodi, compie 18 anni. Senza ovviamente aver attraversato tensioni e scissioni.
Il partito nato dalla famosa fusione a freddo, così definita da uno dei suoi più infausti nonni politici — Achille Occhetto, si intende — ha attraversato alti e bassi, trovandosi ben poco sulla schiera dell’opposizione.
Il progetto di unione di quelle sinistre, più moderate o meno moderate, ma poi rivelatesi tutta polpa dello stesso succo, non ha primeggiato esattamente per prudenza elettorale. Hanno saputo però organizzarsi bene per gestire il potere: poco importava dare un vero senso ideologico o di appartenenza.
E, come ironizzava Roberto Gervaso, nel Pd convivono anime lontanissime: da chi un tempo sognava di fare il Kennedy nel PCI a chi oggi si scopre devoto al Papa dopo aver difeso divorzio e aborto.
Il più noto degli scissionisti, Matteo Renzi, conserva comunque un buon ricordo della sua esperienza al Nazareno. In più occasioni ha rivendicato come le primarie del Pd siano state il momento più alto di partecipazione popolare nella politica italiana recente. Nel 2013 oltre due milioni e mezzo di persone si recarono ai gazebo: un’esperienza che Renzi definì “un esercizio unico di democrazia diretta”, capace di rinnovare la classe dirigente e dare al partito un volto nuovo, non però per vita natural durante.
L’unico vero merito dei dem resta forse quello di essere un partito contendibile. Democratico per l’appunto. L’unico sul panorama nazionale. 
Dagli iscritti agli esterni, tutti possono votare per eleggere il segretario che guiderà poi la leadership. Un meccanismo imperfetto, ma che solleva in modo inequivocabile un tema: la continua, difficile convivenza tra popolo e palazzo.

Davide Castelli
Università degli studi di Milano 
 
 
A diciotto anni è consuetudine esortare i ragazzi a portare a maturazione i frutti dell'esperienza, traguardi ed errori compresi.
Il Pd maturo e maggiorenne dovrebbe ripartire da qui per una fruttuosa palingenesi.
Ripartire da una maggiore presa di coscienza della perniciosità di accozzaglie fatte per prendere voti contro l'avversario (demonizzato oltre il lecito) e non volte allo scopo di governare: sembra che l'oblio fanciullesco abbia prevalso sul governo Prodi 2006 tra veti incrociati e stagnanti amalgame.
Ripartire dalla coltivazione delle proprie radici che un ragazzo maturo non deve mai far marcire: i montaliani lumi di chiesa e d'officina possono ancora illuminare assieme le due anime del partito, fondendosi in un nuovo socialismo liberale, amato da Rosselli, anelato da Bobbio e stimato da Draghi (come ebbe a dire al Die Zeit undici anni fa).
Arrivati alla maggiore età, occorre superare la sbornia adolescenziale delle alleanze di potere con qualunquisti, siano essi guitti liguri, legulei azzimati o cataplasmi verdi latori di sassi. 
Occorre abbandonare il tafazzismo di certi ragazzacci harakiri: in Toscana, la mia terra, il PD, unito solo ad altre forze riformiste, avrebbe stravinto, con un programma coraggioso capace di portare al voto tanti moderati che si sono astenuti; il socialista Giani non avrebbe così rinnegato sé stesso per consegnarsi ai diktat di Taverna e alla nomenklatura del Nazareno.
La maggiore età è anche un'età di crisi, cioè, etimologicamente, di scelta attraverso discernimento: 
Scegliere di parlare di sicurezza nelle città è drammaticamente necessario, non è fascista;
Scegliere di parlare di politica industriale ormai a picco (anche quando gli imprenditori sono proprietari dei giornali-chiesa della sinistra) non è catoblepismo, è fondamentale per la crescita economica; 
Scegliere di parlare di una comune difesa europea come forma di deterrenza non è bellicismo guerrafondaio, ma esattamente il contrario, cosa che ebbe a sostenere, dinanzi a una miope Europa, il lungimirante De Gasperi per la fondazione della Comunità europea di difesa;
Scegliere di parlare di diritti di minoranze è sacrosanto, ma abbandonare la maggioranza del ceto medio e della classe operaia è squilibrato e controproducente.
Alla luce di queste scelte, caro Pd, esprimo due desideri per la tua maggiore età:
Possa l'epiteto "democratico" non confondersi mai più con quello "demagogico": si recida questo forzato cordone ombelicale dall'insopportabile mamma-fuffa dei fanatici propagandisti e si proceda con la matura concretezza delle soluzioni verso l'adulta ambizione delle riforme.
Possa il nome "Partito" scrollarsi di dosso il muco infantile dei peoni trinariciuti per diventare un'istituzione che corre senza correnti, che valorizza differenze e territori, a partire dai sindaci, spesso abbandonati a lottare da soli contro l'abuso di ufficio, fino ai pragmatici presidenti di regione legati al mondo civico e alle necessità anti-centraliste.
Ecco, lo so: i desideri, una volta espressi, non si avverano. 
Ma io non credo nella fatalità superstiziosa. 
Ho fede nel cambiamento attraverso la conoscenza del passato, nel progresso attraverso la conservazione, nella società attraverso la libertà.
E quindi tanti auguri, caro Pd, da parte di chi ha smesso di crederci, ma non ancora del tutto.

Giovanni Baroncelli
Filologia, letteratura e tradizione classica all'Unibo
 
 

Il 27 ottobre 2007, dopo essere stato eletto primo segretario del neonato Partito democratico, Walter Veltroni accoglieva la nascita di questo nuovo esperimento politico dichiarando: "Siamo giunti fin qui: finalmente i democratici, i riformisti italiani, hanno un partito. Una casa comune, grande e nuova".

Ma si sa, un bambino appena nato non ha ancora raggiunto il culmine dello sviluppo cognitivo, e non è raro che dimentichi in fretta i bei propositi. Anche perché solitamente un bambino si esprime a versi, non certo con l’italiano forbito del politico romano.

Accozzaglia non meglio precisata di partiti che spaziano dal cattocomunismo al liberalismo sociale e democratico (se si dà un’occhiata alla sezione “Ideologie” della pagina Wikipedia del partito si ha l’impressione che racchiuda l’intero spettro politico del paese), il Pd riscuote un gran numero di consensi e sembra dare, più o meno maldestramente, unità politica al mondo di sinistra.

Un’infanzia felice sicuramente, poi scombussolata dal cambiamento ormonale e dalla pubertà precoce che i democratici devono affrontare con l’arrivo sulla scena politica di un promettente sindaco di Firenze di nome Matteo Renzi. Tutto d’un tratto il partito si riscopre riformista, quasi liberale, pur mantenendo la sua anima cattolica (che Renzi, da bravo ex scout, non può abbandonare). La crisi ormonale raggiunge vette altissime, ma una volta terminata fa sprofondare il bambino in una depressione che sembra non avere fine.

I genitori provano a mandarlo dallo psicologo, si susseguono una serie di leader poco carismatici che provano a risvegliare la base democratica dal torpore, con poco successo. L’arrivo di una segretaria emiliana più interessata a produrre un complicatissimo susseguirsi di subordinate durante i suoi discorsi rispetto all’occuparsi di politica estera, economica e industriale, pianta l’ultimo chiodo sulla bara del partito.

La realtà è questa: per diventare veramente maggiorenne il Pd deve accettare la sua morte.

Ad un partito che ha rinnegato la sua anima liberale e riformista per diventare la mamma chioccia del Movimento 5 Stelle, non resta che l’eutanasia. Un partito che ha abbandonato gli ultimi per occuparsi di sparute minoranze della popolazione è di fatto responsabile del proprio suicidio e si trova ora nel limbo di chi è morto ma non sa di esserlo. Non resta che fargli il funerale.


Alessandro Bignami
Università di Trento, corso di laurea in Ingegneria

 

 

“L’insuccesso mi ha dato alla testa” così diceva Ennio Flaiano. Una battuta che ben si adatta alla parabola del Partito Democratico.
In diciotto anni di vita, il PD ha attraversato mille e una notte: poche stagioni vincenti, molte velleitarie, e le ultime segnate da una sconfitta d’identità più che elettorale. Nato come la casa comune di socialisti, cattolico-democratici e liberali, il partito non è quasi mai riuscito ad armonizzare le proprie anime. Prigioniero di lotte interne e correnti, amante dello sport di cambiare segretari e segreterie, troppo spesso ha preferito guardarsi allo specchio che alla realtà che lo circonda.
Ormai maggiorenne, non più maggioritario, il PD a guida Schlein sembra aver smarrito l’ambizione di parlare a tutto il paese. Il riformismo pragmatico ha lasciato spazio a un massimalismo ideologico, in cui la coerenza di principio prevale sulla vocazione di governo.
La maggioranza interna preferisce testimoniare un ideale più che costruire una proposta di governo credibile. Il rischio é quello di una coalizione instabile e priva di visione, incapace di assumersi la responsabilità esecutiva per mancanza di una leadership forte e riconosciuta. Così, il PD potrebbe finire per essere percepito come una sinistra alla “Mélenchon”, radicale e minoritaria, che spaventa l’elettore moderato e lo getta nelle braccia di una destra percepita come più rassicurante. Il PD non deve vergognarsi della propria vocazione riformista. È stato, é e può tornare ad essere un partito di buon governo, come dimostrano le esperienze virtuose in Toscana ed Emilia-Romagna. L’obiettivo non é spostarsi al centro ma avanzare proposte coraggiose e concrete che difendano gli ultimi senza dimenticare la classe media.
A questo si aggiunge la necessità di superare una profonda crisi comunicativa. Idee valide, come il salario minimo, non trovano voce, soffocate da un messaggio debole e autoreferenziale.Il PD deve riconnettersi con il paese reale, abbattere la barriera invisibile che lo separa dagli elettori e rappresentarne le speranze e preoccupazioni. Solo allora potrà ritrovare la vocazione maggioritaria e tornare al governo del Paese.

Niccoló Fiorini
Università di Torino in Scienze Internazionali dello Sviluppo e della Cooperazione


Da forza di governo a partito dell’opposizione permanente: il Pd ritroverà mai il coraggio riformista che l’ha fatto nascere?
Diciotto anni fa nacque come erede dell’Ulivo, dall’unione tra Democratici di Sinistra e Margherita. Doveva essere la casa dei riformisti italiani, il partito capace di unire la cultura progressista con quella liberale e di governo. Oggi, invece, appare più come un adolescente smarrito che come un giovane maturo pronto a guidare il paese.
Negli anni il Pd ha perso il suo tratto distintivo: il riformismo.
Da forza di governo è diventato partito dell’opposizione permanente, più impegnato a reagire che a proporre. Ha inseguito i populismi invece di contrastarli con idee solide e riforme coraggiose. Così la sinistra ha smesso di parlare di lavoro, impresa, innovazione e merito — i temi che interessano davvero a chi vuole un’Italia moderna, europea e competitiva.
Al Pd manca una classe dirigente formata e radicata, abituata a studiare, discutere e progettare. Non bastano i leader improvvisati o i giovani scelti solo per anagrafe. Servono persone che conoscano la cultura della responsabilità, del merito e del pragmatismo — quella che un tempo si insegnava nelle scuole di partito e che oggi sembra dimenticata.
Essere riformisti non significa essere moderati, ma avere il coraggio di cambiare davvero le cose. Matteo Renzi — con tutti i limiti della sua stagione — riportò il Pd a parlare di lavoro, scuola, innovazione e futuro. Quel coraggio oggi manca.
E mentre il Pd sembra averlo smarrito, nasce “Casa Riformista”: un progetto che può diventare un vero incubatore di idee e di politica liberale, pragmatica, moderna.
Per diventare davvero maggiorenne, il Pd deve tornare a credere nella modernizzazione del Paese, nell’Europa, nel lavoro come leva di libertà e nel merito come principio di giustizia sociale. Deve tornare a essere un partito “per”, e non solo “contro”: per chi lavora, per chi studia, per chi rischia e costruisce.
Finché non lo farà, resterà un diciottenne che non sa che adulto vuole diventare.
E forse, a quel punto, togliere l’Ulivo dal simbolo sarà più di un gesto grafico: sarà un segno di maturità e di onestà verso sé stesso e verso gli italiani.

Luigi Filippo Daniele
Generazione Europa Liberaldemocratici Bellunesi (GEL)

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