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A proposito dell'omicidio di Charlie Kirk

Abbiamo chiesto agli studenti universitari cosa ne pensano dell'omicidio di Charlie Kirk e del futuro: la violenza politica ha colori politici?

Abbiamo chiesto agli studenti universitari cosa ne pensano dell'omicidio di Charlie Kirk e del futuro: la violenza politica ha colori politici? Scrivete anche voi, in duemila battute, a situa@ilfoglio.it. I migliori testi degli studenti universitari saranno pubblicati (qui trovate tutti gli articoli degli studenti pubblicati in questi mesi). Se non siete ancora iscritti alla Situa potete farlo qui, ci vuole un minuto, è gratis.

   


   

La violenza ha solo il colore del sangue. 
Chi si macchia di sangue non fa vera politica.
Credo fermamente io, ma lo credeva anche Charlie Kirk, che sia arrivato il momento di re-insegnare cosa vuol dire fare politica: proprio dai banchi di scuola e dell’università, dalle chiacchiere al bar con gli amici, o a tavola in famiglia.
La società che ha consumato l’assassinio atroce e cruento di Charlie Kirk è una parte politica fantoccia, fa finta politica trincerata dietro un profilo social aizzando le folle. Questa è demagogia. 
La politica ce la insegnano gli ateniesi all’interno dell’assemblea della Polis dove ognuno aveva diritto di parola, e vinceva l’argomentazione migliore, non le armi.
Ciò non vuol dire che le parole non siano armi altrettanto pericolose o per contrario vuote di contenuti. Socrate teneva ben in guardia dai Sofisti, elaborò allora una tecnica vera per confrontarsi e indagare la Verità: la Maieutica. 
Ancora una volta nella storia gli estremismi disseminano violenza, e ci alziamo forse troppo tardi nel renderci conto che il progressismo degli ultimi tempi dei gruppi che si sentivano minoranze, a furia di permissivismo, si è sentito legittimato a imporsi e usare la violenza. Quel gruppo politico ben preciso, sordo alle posizioni di chi gli è discorde, è l’Anti-politica. Ragiona per la sua caratteristica personalissima e la vuole imporre senza tolleranza, senza ascolto, senza genuino confronto. 
Questa non è politica. 
Chi non è in grado di farsi portavoce dei più, è un tiranno, non può rappresentare un popolo e prendere posizioni di governo. Non ha gli strumenti dialettici e razionali per fare politica, per ragionare sul fatto concreto e trovare logicamente una soluzione.
Il massacro di Charlie Kirk porta il colore del sangue e dell’Anti-politica, ma ha anche fatto crollare il Muro del Permissivismo e del Relativismo. 
Non tutto è uguale, non tutto è giusto, siamo dotati di una ragione eticamente orientata come diceva Kant, e siamo quindi chiamati a interrogarci su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. È sbagliato uccidere, ancora una volta la semplicità dei comandamenti, come professava Kirk, si reputano il manuale etico più semplice da seguire per essere uomini, innalzare la nostra dignità e quella del nostro prossimo, chiunque egli sia. 

Benedetta Trabalza Marinucci
Economia e Finanza LM-56
 
 
Charlie Kirk è morto e, nonostante molti provino a mistificare la realtà, è evidente che il suo assassinio si inserisce all’interno del contesto politico. 
La speculazione riguardante Tyler Robinson in questi giorni è stata molta. Qualcuno sostiene che sia di destra perché i suoi genitori sono repubblicani. Molti scrivono che in realtà è un democratico siccome aveva un partner trans. Il Governatore dello Utah ha affermato che le opinioni del ragazzo si sarebbero spostate significativamente a sinistra. Ad ogni modo non risultano affiliazioni a partiti. Ciò che si può stabilire con certezza è che Robinson non apprezzava Kirk e credo sia ragionevole pensare che non fosse nemmeno fan di Donald Trump, Presidente ampiamente sostenuto proprio dal fondatore di Turning Point.
Tuttavia, a differenza di quanto dichiarano alcuni politici o di quanto scrivono presunti commentatori sui social, è difficile attribuire la violenza politica in genere solo alla destra o alla sinistra. La storia recente del nostro Paese ce lo insegna. Gli Anni di Piombo ne sono la dimostrazione perfetta e delineano una situazione molto precisa in cui i comunisti delle Brigate Rosse, i Neofascisti dell’Ordine Nuovo e gli estremisti delle altre numerose organizzazioni terroristiche di stampo politico hanno mostrato un lato inevitabile delle loro ideologie: la violenza. 
Questa è comune ad entrambi gli estremi e trova terreno fertile in uno scenario politico sempre più diviso, in cui gli elettori dibattono sempre di meno, sono sempre più radicalizzati e amano definire comunisti o fascisti coloro che la pensano diversamente dal loro politico preferito. Ciò non implica che l’assassino di Kirk fosse un comunista o un fascista, ma fa comprendere che probabilmente anch’esso sia stato travolto da un meccanismo sociopolitico che al posto di unire i cittadini li ha separati profondamente. 
Negli Stati Uniti questo fenomeno è facilmente osservabile, ma anche in Italia e in Europa c’è chi ne cade vittima. Troppi sono i commenti online che considerano l’uccisione un atto positivo, un’azione anti-fascista o persino un gesto di resistenza. Molti altri sostengono che “non bisogna tollerare gli intolleranti”, passando automaticamente anch’essi per intolleranti. 
Per concludere, al centro della democrazia e del suo funzionamento ci sono il dialogo e l’ascolto; quando una parte, che sia di destra o di sinistra, si sottrae a questo binomio fondamentale rischia di scivolare nella radicalizzazione, nell’estremismo e di conseguenza anche nella violenza politica.
 
Samuele Braguti
Mediazione Linguistica e Culturale all’Università degli Studi di Milano
  
 
Siamo un po' tutti Charlie Kirk. Lo ha ricordato Mario Giordano su Rete 4, e non è difficile capire perché. Quanti di noi, esprimendo liberamente le proprie opinioni sui social, finiscono bersaglio di minacce e insulti? Certo, cambia il grado di esposizione mediatica, ma il meccanismo resta lo stesso: colpire chi dissente, trasformare il confronto in delegittimazione personale.
Il cosiddetto “fascismo degli antifascisti” ha conosciuto un nuovo, inquietante exploit: l’assassinio del rampollo di Trump in un’università americana. La reazione pubblica, prevedibilmente, è stata caotica: si è parlato di tutto, tranne che dell’essenziale. Eppure, di fronte a un omicidio politico, dovrebbe esserci un’unica risposta possibile: la condanna netta, senza se e senza ma. Invece assistiamo alla solita deriva: anziché ribadire i valori democratici occidentali, si finisce per giudicare retrospettivamente la vita della vittima, arrivando persino a travisarne e strumentalizzarne la morte.
La verità è che la violenza politica non ha colore definito. Non rientra nelle facili schematizzazioni: ha piuttosto il tratto della trasversalità. La teoria del ferro di cavallo lo spiega bene: gli estremi, pur partendo da presupposti opposti, finiscono per assomigliarsi nei metodi e nella mentalità. È per questo che tra comunisti e fascisti vi sono più affinità di quante se ne possano riscontrare, ad esempio, tra un liberista e un conservatore moderato. La violenza, in qualunque forma, è una piaga sociale: nelle democrazie di confronto e pluralismo non può trovare alcuna legittimazione.
La storia repubblicana italiana lo conferma. I gruppi terroristici degli anni Settanta e Ottanta erano sempre espressione di estremismi: i Nuclei Armati Rivoluzionari da un lato, le Brigate Rosse dall’altro. Non si è mai vista un’organizzazione terroristica che si richiamasse ai valori liberal-democratici del PLI di Malagodi o al riformismo laico dei repubblicani di Spadolini. La violenza politica non nasce dal cuore delle tradizioni democratiche e liberali, ma dagli estremi che negano il pluralismo e sostituiscono il dialogo con la sopraffazione.

Davide Castelli
Università degli studi di Milano
 
 
L’assassinio di Charlie Kirk diventa subito terreno di scontro: chi urla che la violenza è “roba da estremisti di destra”, chi la scarica tutta su una sinistra rancorosa. Ma davvero la violenza politica ha un solo colore? O è il passe-partout con cui ogni fazione, quando perde le parole, prova a farsi ascoltare con le mani, con le armi, con il sangue?
Il punto è che la violenza è bipartisan, anzi universale. La destra ci mette il manganello, la sinistra il molotov, il complottista la paranoia, il radical chic la superiorità morale. Cambiano i simboli, cambiano i cori, ma lo spartito è lo stesso: trasformare l’avversario in un nemico da eliminare. È lì che muore la politica e nasce la guerra civile a rate.
Attribuire la violenza a un solo colore fa comodo: così ognuno si sente innocente, “noi i buoni, loro i cattivi”. Peccato che la storia, anche quella italiana, smentisca questa favola. Terrorismo rosso e nero, stragi di Stato, omicidi mirati: l’arcobaleno della violenza politica è tristemente completo. E chi oggi punta il dito contro l’altro schieramento dimentica che domani potrebbe trovarsi sul banco degli imputati.
La verità, amara, è che la violenza politica è apolitica: è il cortocircuito di chi ha esaurito le idee e prova a farsi ascoltare col piombo. L’unico antidoto non è dipingere muri di parte, ma difendere il recinto comune del confronto civile. Perché la violenza non ha colore: ha solo il grigio cupo del fallimento della politica.

Elisa Scardino 
Scienze dell’educazione e della formazione UniPegaso