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La Situa - dibattiti universitari
A proposito della Flottilla
Abbiamo chiesto agli studenti universitari cosa ne pensano della Flottilla. Sostenerla o smascherarla?
Abbiamo chiesto agli studenti universitari cosa ne pensano della Flottilla. Sostenerla o smascherarla? Scrivete anche voi, in duemila battute, a situa@ilfoglio.it. I migliori testi degli studenti universitari saranno pubblicati (qui trovate tutti gli articoli degli studenti pubblicati in questi mesi). Se non siete ancora iscritti alla Situa potete farlo qui, ci vuole un minuto, è gratis.
Negli ultimi giorni la Global Sumud Flotilla, - la flotta partita alla volta di Gaza con il fine di rompere senza violenza il blocco navale intorno alla zona del conflitto -, è stata attaccata, facendomi sorgere il dubbio che non bastino le buone intenzioni. Perché in fondo di cosa sono armate queste navi? Di difesa aerea non di certo, allora come pensano di scontrarsi con un avversario che non si fa scrupoli ad utilizzare la propria superiorità militare per evitare che soggetti, a loro indesiderati, raggiungano le coste della striscia di terra più famosa degli ultimi anni? Abbiamo visto come c’è stata una grande attenzione mediatica su questi temi, e forse alla fine è questa l’unica arma di questi coraggiosi, non per forza furbi, attivisti, che magari pensano che bastino le buone intenzioni ed una opinione pubblica favorevole per evitare quello che sarebbe un disastro: il loro arresto o addirittura la loro morte. In fondo mi sembra di vedere delle persone che, prese da un rinnovato spirito di salvezza, decidono di sacrificarsi, consapevoli della posizione di inferiorità militare in cui si trovano, con il fine ultimo non di portare alimenti e beni a Gaza, cosa per cui c'è sicuramente la volontà, ma di attirare su di sé un attenzione tale da poter avere uno scudo “pubblico”. In sostanza un gruppo di persone non tanto interessate alla propria vita; o comunque disposte a sacrificarla pur di smuovere i nostri governi all’azione. Il loro obiettivo ultimo sembra essere infatti quello di portare le proprie Nazioni a doverli difendere, condannando Israele non solo con le parole. Alla fine, quando la guerra sarà finita, questa flotta sarà ricordata come il tentativo riuscito di alcuni coraggiosissimi attivisti di superare la forza dei governi? Oppure sarà ricordata come una tragedia dove alcuni estremisti “propal” sono stati rinchiusi o uccisi per la loro incoscienza? Non possiamo essere noi, per quanto saggi e preparati sui temi di geopolitica internazionale, a prevedere l’esito di questa azzardata missione. Se venisse chiesto a me, studente universitario di 22 anni cosa ne penso della Flotilla, direi di aspettare e vedere dove la storia la colloca. In fondo mi chiedo se, dai nostri troni di parole possiamo trovare qualche zappa d’azione, uscendo dalle nostre case integre, dopo aver abbondantemente pranzato con i nostri cari in salute, mentre discutevamo, come si discute dell’ultima partita di campionato, riguardo a bambini morti in una guerra che alla fine forse neanche capiamo. Magari non bisognerebbe vedere le persone imbarcatesi nella Flotilla solo come dei soggetti esterni, lontani, da giudicare, ma come persone che hanno avuto il coraggio di agire, oggi, ora, mettendo a rischio la propria vita, anche se forse armati solo di buone intenzioni.
Federico Minori
università di Torino, comunicazione interculturale
A undici giorni dalla partenza dal porto di Barcellona, la Global Sumud Flotilla ha già subito due attacchi. Tentativi di intimidazione che miravano almeno a incrinare il morale degli attivisti a bordo, se non a qualcosa di peggio. Ma l’eterogenea rappresentanza civile che compone questa flotta sembra tutt’altro che disposta a lasciarsi fermare.
Chi vi partecipa ha compiuto una scelta netta: distaccarsi, anche solo per un tempo limitato, dallo stato di benessere che, avvolgendoci, troppo spesso anestetizza le coscienze e rende sopportabile l’insopportabile. Hanno deciso di mettere da parte l’individualità per abbracciare una forma più alta di collettività. E lo fanno trasportando non armi, ma viveri, medicine e simboli. Perché un’azione del genere, in sé, dimostra quanto sia fragile e inadeguato un sistema militare che pretende di soffocare ogni gesto di solidarietà.
La Flottilla non ha solo le cambuse piene di beni di prima necessità per i Gazawi. Porta in sé una luce, il faro che si accende nel cuore della tempesta, come quello che consente ai marinai di ritrovare la rotta ed evitare la deriva. È un gesto di fratellanza, un richiamo alla coscienza umana che ricorda quanto il mare, luogo di scambi e incontri, possa farsi strumento di solidarietà invece che teatro di disumanità.
Come la Winnipeg decenni fa, anche la Global Sumud Flotilla diventa simbolo di ciò che l’uomo sa costruire quando sceglie la via più difficile: la fratellanza. Un atto semplice e radicale, capace di restituire alla parola “umanità” il suo significato più profondo.
Ed è proprio questo il punto. Di fronte a chi decide di mettere la propria vita al servizio di persone la cui vita è quotidianamente in pericolo, non servono sofismi né analisi capziose. Non si tratta di scovare un presunto punto debole, né di banalizzare l’azione. Si tratta di riconoscere la portata umana di un gesto che chiede solo di essere accolto per ciò che è: la prova che con intelletto e civiltà ogni ingiustizia può ancora essere contrastata.
Gabriele Poggi
La Global Sumud Flotilla è l’ennesima scenata politica, di cui non avevamo francamente bisogno. La causa potrebbe essere considerata anche “nobile”, ma i metodi sono, quanto meno, discutibili. Come si può minimamente immaginare di contribuire pragmaticamente alla c.d. “causa palestinese” trasportando una quantità di viveri misera?
Chiaramente si tratta di un palese atto politico e di disobbedienza civile. Ma come ci insegnò, tempo addietro, l’ottimo Marco Pannella, le disobbedienze civili andrebbero fatte senza chiedere supporto e scudi vari all’establishment. Tralasciando il fatto che suddetti aiuti verranno, come il 90% di questi (fonte ONU), dirottati dagli infami terroristi di Hamas.
È tutto così lapalissiano: si tratta, sempre più, di becera propaganda antioccidentale. Gente che vive nella bambagia dell’Ovest si appresta, con i loro iPhone e bandiera LGBTQ+, a salpare verso la Striscia di Gaza governata da chi li farebbe marcire nelle galere, quando va bene, o li impiccherebbe direttamente in piazza, quando va male.
Premesso ciò, è nostro dovere morale ignorare la Flotilla. Come si può minimamente pensare di dare supporto a gente che nega persino l’attentato del 7 ottobre, insinuando che possa essere stato voluto dall’IDF e da Benjamin Netanyahu? È una flotta piena di antisemiti mascherati; possibile che non ci sia neppure una parola di condanna sull’attentato a Gerusalemme Est?
Sui finanziamenti alla traversata, non sicuramente ecologica, vi sono senz’altro moltissimi punti da chiarire. Risulta molto probabile che una parte degli aiuti umanitari sia stata finanziata da organizzazioni vicinissime ad Hamas.
In definitiva, la Global Sumud Flotilla non rappresenta né un gesto eroico né una reale azione umanitaria: è l’ennesima farsa ideologica, un palcoscenico utile soltanto a chi vuole strumentalizzare il dramma di un popolo per attaccare Israele e, più in generale, l’Occidente. Chi sostiene davvero la pace e la convivenza dovrebbe avere il coraggio di denunciare senza ambiguità il terrorismo, l’antisemitismo e la brutalità di Hamas, invece di prestarsi a questa teatrale e sterile messinscena. Difendere Israele oggi significa difendere i valori democratici, la libertà e la verità contro la propaganda e la menzogna: ed è per questo che non solo è legittimo, ma è doveroso, smascherare la Flotilla e negarle ogni credibilità.
Leonardo
Giurisprudenza
In un contesto geopolitico sempre più deprimente e opprimente, la spedizione pacifica “Global Sumud Flottilla” partita tra fine agosto ed inizio settembre per portare aiuti umanitari nella striscia di Gaza, riaccende una luce di umanità. Umanità che sembra ormai essere un qualcosa di atipico e desueto, un valore a cui nessuno dà più importanza.
Oltrepassando la zona grigia dei governi e di tutte le forze politiche che non si esprimono, che tardano ad esprimersi o che non lo fanno efficacemente, la “Flottilla” si ribella. Si ribella perché non riesce ad accettare un mondo chiuso nei propri interessi, aperto solo alle proprie prospettive e incapace di uno sguardo lungimirante e di integrazione. Lo fa con resilienza (“sumud” in arabo vuol dire proprio resilienza), parola che sentiamo dire ogni giorno soprattutto dal periodo della pandemia di Covid-19, ma che oggi più che mai sembra essere l’unico appiglio a un filo sottilissimo, quello dell’umanità. E la Flottilla prova ad aiutare, a sostenere - in questo caso il popolo palestinese - chi un appiglio non ce l’ha, chi ha perso ogni futuro e ogni speranza di vita, chi è stato di fatto annichilito.
Sostenere oggi questa spedizione vuol dire schierarsi. Se ci siamo schierati dalla parte giusta, a dirlo sarà la storia. Ma schierarsi oggi vuol dire prendere una decisione coraggiosa, anticonformista, contro tutto quel mondo di ignavia, di indifferenza, di troppo potere.
Dove non arrivano le istituzioni, i governi, la politica, arriva un flebile ma potentissimo spiraglio di luce.
Federico Troisi
UniSalento
Global Sumud Flotilla è diventato il simbolo della resistenza civile e politica contro il predominio israeliano sulla Palestina. In arabo "sumud" significa infatti "resistenza" e "resilienza", legandosi perfettamente ai valori della flotta, che mira ad aiutare la popolazione di Gaza stremata dalla fame.
L’iniziativa è nobile e necessaria, ma è davvero una mossa efficace in un panorama socio-politico così teso e complicato?
I tentativi precedenti si sono rivelati rischiosi e, infine, fallimentari, alimentando lo scetticismo nei confronti della nuova impresa che, però, è stata impostata diversamente. Non si parla più di navi singole, ma di una flotta vera e propria, potenzialmente in grado di rompere il blocco navale stabilito da Israele e di portare aiuti rilevanti alla popolazione di Gaza.
Le intenzioni sono considerevoli e umanissime, ma non bastano. In uno scenario di intolleranza, assedio, spietatezza, come quello che dipingono sui giornali, la benevolenza di qualche centinaio di persone non è probabilmente sufficiente a risanare i danni che mesi di guerra hanno creato.
Fare del bene è sempre giusto, ma in questo caso diventa un bene mediatico, una sottolineatura necessaria a puntare i riflettori su una situazione estrema e su cui tutti dovremmo riflettere e, magari, reagire.
Global Sumud Flotilla è un’ottimo mezzo di comunicazione politica, un atto di testimonianza che inscena la protesta travestendosi da aiuto umanitario, ma che sventola la bandiera della coscienza, nel tentativo di segnalare ai Forti la necessità di aiuti umanitari e sanzioni contro Israele.
L’umanità in questi contesti non si dimostra con le “buone intenzioni“, ma con piani solidi e sicuri, con diplomazia e accordi schietti, senza rischiare di diventare merce di scambio proprio di coloro che si vorrebbero punire.
La solidarietà e l’impegno di tutti i membri dell’equipaggio dimostra la necessità di un’azione concreta, ma in termini diversi. È lodevole la promessa di un aiuto reale, un tentativo puro di fare la differenza che tuttavia si esaurisce in un titolo di giornale e in un post sui social. Global Sumud Flotilla rischia di rimanere solo un simbolo.
Elisabetta Giacon
Scienze e Tecnologie della Comunicazione, Università degli studi di Ferrara
"Nell'era della filmabilità universale, chi può dirsi capace di smascherare un mito? Agli occhi di milioni di persone la Global Sumud Flotilla è un simbolo planetario di pace, ma già il nome tradisce la condivisione di un’idea di belligeranza da parte di un altrettanto cospicuo target. Sumud è infatti forma di resistenza: una suggestione potente per il pubblico occidentale perché, richiamando la cacciata del nazifascismo, attiva un meccanismo - di compassione per il dolore di Gaza e di spinta impellente ad agire - più immediato di qualsiasi discorso. Purtroppo questa analogia ha come effetti collaterali l’identificazione di Israele non solo in un oppressore ma anche in un intruso da purgare, oltre a una semplificazione utile se basi la tua strategia politica sulle divisioni della Seconda Guerra Mondiale.
Sumud afferisce alla lunga lista di termini mistificanti come colonialismo, stato terrorista, genocidio. Il loro uso massiccio ci aliena dal loro significato, elude l’utile per gli abitanti di Gaza, ed erige trincee comunicative in chi li tracanna senza farsi troppe domande. Per questo sia incoraggiare sia ignorare tale fenomeno mediatico non può che agevolare la già grave polarizzazione del dibattito e dell'opinione pubblici.
Alcuni pregiudizi sono ardui da espugnare, ma condurre una mente a dubitare che la realtà non sia così dicotomica come raccontata dai media mainstream vale la pena del dialogo. Gaza ha bisogno di beni di prima necessità, non di una dichiarata sfida alla flotta israeliana o di un incidente diplomatico: quella mente potrebbe impegnarsi in iniziative forse meno plateali ma più efficaci, come incalzare i governi affinché assicurino la consegna degli stessi beni alla popolazione senza pericolosi passaggi intermedi - attivismo, scioperi, proteste necessitano consapevolezza. Sarebbero progetti che hanno dei precedenti; evidentemente in quantità insufficienti, ma che non hanno da invidiare a quelle della Flotilla."
Giovanni Aresti
Università di Cagliari
L’iniziativa della Global Sumud Flotilla, partita alla volta di Gaza per rompere il blocco illegale imposto da Israele sulla Striscia e portare aiuti, prodotti alimentari e medicinali ai civili palestinesi, non è solo una missione umanitaria, ma è simbolo di resistenza. La parola ṣumūd, che in arabo significa “resilienza”, “perseveranza costante”, oltre a indicare una strategia politica, incarna per i palestinesi una vera e propria filosofia, un valore: è la scelta fatta da questo popolo di rimanere nella propria terra nonostante i numerosi attacchi che negli anni sono stati (e continuano ad essere) inflitti da Israele. La decisione dei membri della Flotilla di impiegare proprio questa parola per dare nome alla loro iniziativa vuol dire, dunque, abbracciare un ideale di resistenza, di disobbedienza non violenta, di cui è necessario farsi portavoce. Oggi più che mai.
Da quasi due anni, Israele si sta macchiando dei crimini peggiori: ha raso al suolo Gaza, ha massacrato decine di migliaia di civili, ha tentato in tutti i modi di privare un popolo della propria dignità costringendolo alla fame e alla mancanza dei mezzi necessari al proprio sostentamento. L’intento di eliminare la Palestina va via via concretizzandosi e i civili, per quanto cerchino di resistere, per quanto si sforzino di rimanere ancorati con le unghie e con i denti alla loro terra, sono ridotti allo stremo delle forze.
E in tal senso, l’intervento della Global Sumud Flotilla è quantomai necessario, non solo per il cibo e i medicinali, ma anche e soprattutto per quello che rappresenta: è il simbolo della resistenza e della lotta all’indifferenza; è la scintilla che può tenere accesa la fiamma del ṣumūd; è la risposta a delle richieste di aiuto per troppo tempo rimaste inascoltate; è un modo per far avvertire al popolo palestinese la presenza della popolazione civile mondiale che si rifiuta di assistere, inerme, a un altro genocidio.
E per noi che rimaniamo sulla terraferma, sia nostro dovere sostenere questa “flotta”.
Cristina Scialpi
Lettere presso l'Università del Salento
La nostra democrazia è claudicante. Certo, non lo scopriamo oggi, ma non per questo dobbiamo preoccuparcene di meno. Tra le istituzioni ed i cittadini, c’è una distanza che sembra sempre più grande, e così anche tra questi ultimi ed i loro rappresentanti: il messaggio che passa è che le decisioni o vengono prese nella lontana Bruxelles – dove comunque siedono 76 rappresentanti degli italiani, oltre ai membri del nostro Governo, benché spesso qualcuno, anche dagli scranni di Montecitorio, se ne dimentichi – o vengono prese blindando un decreto-legge ponendovi la fiducia – escamotage ben rodato, il cui merito non va certo all’attuale governo. D’altronde, dove sono gli spazi per partecipare, per la dialettica politica? E, ancora, se neanche intra moenia parlamentari c’è dialogo, come possiamo pretendere che ve ne sia extra moenia?
Lungi da noi invocare un processo deliberativo rousseauiano, resta che abbiamo un problema.
Ebbene, la spedizione della Global Sumud Flotilla va ad inserirsi proprio in tale vulnus del sistema: riempie il buco della (non) partecipazione, riempie il buco dell’ignavia e dell’immobilità celate dietro alla distanza cittadino-istituzioni di cui sopra, riempie il buco dell’inconcretezza dei tweet della comunicazione politica con la concretezza di una flotta di circa cinquanta barche. Sceglie una comunicazione chiara, compie un'azione tangibile: noi agiamo e andiamo là, dimostrandovi che l’inazione non è un obbligo.
Se la nostra democrazia fosse in salute, non ci sarebbe alcuna Global Sumud Flotilla, perché alla mobilitazione cittadina seguirebbe una mobilitazione politica, invece della titanica immobilità che constatiamo. Ma siccome non è così, bene che parta la flotta. Nella convinzione dei sostenitori e nelle polemiche dei detrattori: chissà che, magari, riesca a muovere qualcosa, che ci porti in piazza, che ci porti a chiedere un dialogo diretto con i nostri rappresentanti, a pretendere da loro l’azione.
Carlo Millino
Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani
"No Church in the Wild" è il titolo di una delle canzoni più popolari del rapper statunitense Jay-Z insieme al collega e amico Kanye West (“Ye”). Il singolo è un rarissimo caso di canzone in cui bisogna prestare più attenzione alle parole piuttosto che alla musica. In soli 4 minuti e mezzo sono concentrati una serie di concetti che fanno capo a un’unica parola: indipendenza. La canzone fa infatti riferimento a un mondo in cui non sono le istituzioni (laiche o religiose) a detenere il potere, ma l’essere umano stesso, portatore della propria interpretazione di moralità. Questo non significa immaginare un’esistenza dominata da caos e anarchia, bensì progettare un futuro diverso in cui uomini liberi sono messi nella condizione di forgiare loro stessi i propri percorsi di vita. Se io fossi su una delle imbarcazioni che compongono la Global Sumud Flotilla, farei partire "No Church in the Wild" almeno una volta al giorno, come motivazione per andare avanti a vele spiegate per cercare di avvicinarsi il più possibile all’obiettivo: riportare umanità laddove non se ne vede più da un pezzo. Sumud è un termine che si sposa bene con il significato della canzone. Spesso si traduce con resilienza, ma fa in realtà riferimento a qualcosa di più profondo e ostinato: lo sforzo palestinese di mantenere vivo il legame con la terra oppure, ancora, la tenacia di fronte all’oppressione israeliana (che ricordiamo essere iniziata con la pulizia etnica del 1948 e non con il 7 ottobre 2023). Ogni tanto, nel corso della storia, i paradigmi si invertono e, come in questo caso, sono gli “altri” ad insegnarci qualcosa. Sta poi a noi decidere se tendere l’orecchio e agire oppure voltare lo sguardo. Dove le istituzioni falliscono, il singolo cittadino sceglie liberamente di rischiare tutto per tendere, non solo l’orecchio, ma anche la mano al popolo palestinese. E in quella mano non c’è solo un pacco di farina, ma la conferma che il mondo non è ancora diventato sordo.
Gloria Sanzogni
Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale, Università di Parma
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