Un'immagine di Istanbul (foto Pixabay)

Un albergo a Istanbul

Umberto Silva

Perdere Dio, oppure forse ritrovarlo nella bellezza delle donne e in una notte bizantina

Buon Dio, perché da un po’ di tempo non Ti onoro e nemmeno Ti vedo, Ti sento? Perché T’insulto - anche se poi smentisco - che non Ci sei? Mi hai abbandonato, taci, io taccio, Tu di più, Tu mi odi, io no, Ti insulto per farti muovere ma Tu taci: cosa è accaduto, a Te soprattutto, che il mio male è robetta da poveraccio, ma non vuoi più giocare con me, chissà dove sei, entro nelle chiese che pure mi annoiano e non Ti sento, anche Tu a volte ti annoiavi e ridevamo, ma ora ci odiamo, dove sei, dove sono, dove siamo? Sono ancora vivo, ricordalo accidenti, a chi Ti sei venduto, mi disprezzi? Tu sei scomparso alla mia vista, perché lo sai; io non riesco più a baciarti, a ridere con te, a gioire nelle nostre coltri, la tua, la mia, è sempre stato così, mi perdonavi, ti volevo bene, ti volevo tutto, ora ancora Ti dico Amore ma non ti sento, non sei vivo… Divino mio fuggito Signore dammi un segno, un sogno. Giorno e notte si parla di un disastro che ci attende, una catastrofe voluta dal nulla, quel nulla che sembrava dopo i cinquant’anni anni di lunga tristissima morte la nascita di pietà gloriosa e sempre futura, laddove vidi e ricordo gli anni quarantacinque e cinquanta e sessanta, e poi altri, stupidi e feroci ma sempre vivi, per idiota che fossi, e sempre vivo, ma insomma c’è qualcosa che non va, la bellezza pare più tremendamente idiota del solito, e sono tutti tranquilli ma non lo sono, dormono ma no, non dormono, è un sonno come tutti, come tanti, ma anche quando nel Cinquecento e oltre si moriva ecco che si era vivi, si era vivi anche morendo, si era sacri e ora non più. Neppure il Papa si dà da fare ma è tutto scarso e vano, si parla di una bellezza che c’è e non c’è, soprattutto non, anche se la bruttezza è pur qualcosa nel disastro della terra, là dove c’è il mare e la nebbia, il meglio del creato e dello sfacelo, e come psicoanalista passo il tempo a psicoschiaffeggiarmi, e in fondo è un sinistro piacere, e la luna è sempre in cielo, nel mio cielo, che è quello altrui, il mio minorato, il cielo è ben altro, una favolosa catastrofe che solo guardandola è stupenda.

 

“Dalla finestra dell’albergo si vede il nuovo ponte dell’Istanbul. S’illumina di tanto in tanto e il suo vasto arco riluce multicolore. Lo guardo soprattutto di notte, quando rientro e i piedi dolgono per il tanto camminare e gli occhi cercano un’immagine lontana sulla quale fare riposare lo sguardo. Il sonno? Il sonno verrà dopo”. Silvio parla, la finestra, l’albergo, Istanbul, il sonno verrà dopo o mai. Era un’altra cosa ora lo è, un’altra, c’è una strana via che conduce al conoscersi sconosciuto, e viceversa, anche, certo, ma forse incerto, assurdamente certo, come no, come si, è così il destino, il suo, di Silvio, il destino di chi viaggia conoscendosi nell’ignoto. Cammino anch’io per la città che tanto ho odiato e tanto amato, odiato perché lì, qui, fui tante volte nel ricordo ucciso, e mai riesco a perdonarmi, ma la bellezza delle donne, che mai hanno colpa, è sublime. Le donne sono tutte meravigliose per il fatto di essere donne, e il camminare per la città è sempre un favoloso camminare.

 

“Basta poco per affezionarsi a una città come questa, crocevia di civiltà, stratificata anche nel modo di chiamarla, al punto tale che sotto l’attuale nome risuonano o ancora quelli di Costantino e di Bisanzio. Già solo dire Istanbul, e decidere dove cadere l’accento, è un piccolo viaggio” quello che rapisce Silvio, la musica che ci rapisce, un’illusione? Forse, ma è d’illusioni che vivono gli esuli felici: “Le colonne sono una diversa dall’altra; i camminamenti sono sospesi sull’acqua e sembra di stare su una città capovolta. Ecco dunque uno strato sottostante, un giù Istanbul risonanti di musica e sciabordii”. Camminiamo per Istanbul, la mia Costantinopoli sempre piange. Troppo la meravigliosa è pronta all’ultima, incessante lacrima, ma Silvio non cede, il suo cammino è lungo, viene da lontano, qua e là nel tempo che soggiace al lampo...

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