Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell'altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po' da compatire”. Lo scritto di Manzoni, mescolato con le parole di Mattarella, ci offre diversi spunti per tentare di ragionare su un argomento importante che ha a che fare con quella che forse in queste ore è la domanda delle domande: di fronte a un'emergenza come quella che stiamo affrontando, in che modo chi fa informazione può raccontare l'emergenza senza fare allarmismo e senza coltivare per l'appunto stati di ansia immotivati e spesso controproducenti? Rispondere a questa domanda senza cadere nella retorica, senza salire su un pulpito e senza mettersi in cattedra non è semplice ma per capire meglio di cosa stiamo parlando e per spiegare meglio cosa si potrebbe fare per evitare di creare panico anche quando il panico non andrebbe creato può essere utile valorizzare due personaggi molto diversi tra loro, uno più famoso e l'altro meno famoso, che negli ultimi giorni hanno offerto due magnifiche lezioni sul tema “informare senza allarmare” e che probabilmente sarebbero piaciuti ad Alessandro Manzoni. Il primo personaggio si chiama Jürgen Norbert Klopp, è un ex difensore tedesco e oggi è l'allenatore del Liverpool. Pochi giorni fa, in un intervento che in un'epoca diversa avremmo definito “virale”, ha risposto in modo esemplare a un giornalista che, durante una conferenza stampa, gli chiedeva un commento sul coronavirus e ha offerto un suggerimento mica male a tutti i conduttori che ogni giorno riflettono sull'opportunità o meno di trattare il coronavirus come se fosse una chiacchiera da bar sul rapporto tra Bugo e Morgan. Uno non vale uno, ha ricordato Klopp, e lo ha fatto usando delle parole che sarebbe utile appendere nelle redazioni di tutti i giornali e di tutti i talk-show. Eccolo qui, il professor Klopp: “Una cosa che non mi piace è il fatto che su una faccenda molto seria l'opinione di un allenatore sia importante. Non lo capisco. Davvero non lo capisco. Potrei chiedere a voi e sareste nella mia stessa posizione. Non importa ciò che ha da dire chi è famoso. No, bisogna parlare delle cose nel modo giusto. Non può essere che chi non ha conoscenza della materia come me parli di certe cose. Le persone che ne sanno dovrebbero parlarne e dire agli altri: ‘Fate questo o fate quello e andrà tutto bene oppure no'. Non gli allenatori, non capisco, politica, coronavirus, perché me? Io indosso un cappellino da baseball e ho la barba fatta male. Sono preoccupato tanto quanto voi, forse meno, non saprei. Non so quanto siate preoccupati. Ma la mia opinione non conta in realtà. Vivo su questo pianeta come voi e voglio che tutti siano sani e al sicuro. Auguro il meglio a tutti, ma la mia opinione sul coronavirus non è importante. Se qualcuno mi dice giocate, allora noi giochiamo. Perché penso che gente intelligente ha detto che possiamo farlo: non spetta a me prendere certe decisioni”. Informare senza allarmare, affidarsi agli esperti senza trasformare in esperti gli incompetenti e cercare ogni giorno una terza via non impossibile tra pessimismo e realismo. Sembra difficile, a volte sembra quasi impossibile, ma c'è qualcuno che, oltre alla nostra eroica Ilaria Capua, una misura sembra averla trovata e sembra essere la persona immaginata da Jürgen Klopp per rispondere con competenza alla domanda delle domande: quanto dobbiamo preoccuparci? La persona in questione si chiama Stefano Vella, è stata a lungo direttore del Centro di salute globale dell'Istituto superiore di sanità, è uno dei molti medici interpellati in questi giorni sui giornali e in una recente intervista, rilasciata due giorni fa alla tv di Repubblica, ha messo insieme una serie di spunti utili per orientarsi nel panico. Ha ricordato che nell'85 per cento dei casi il coronavirus è una lieve sindrome influenzale e che la malattia in questi casi decorre in modo lieve. Ha spiegato che nel restante 15 per cento dei casi c'è una porzione piccola di persone che a seconda dell'età può avere delle conseguenze più serie, come la polmonite, ed è in questo caso che le persone vengono isolate. Ha specificato che la crisi che abbiamo adesso non è tanto legata al numero di nuovi casi che sta arrivando ma è legata ovviamente all'ingolfamento di alcuni ospedali. Ha aggiunto che in relazione al numero della popolazione i numeri dell'Italia sono per fortuna piccoli, che la probabilità di incontrare una persona, salvo attorno alle aree a rischio, che ha questo virus addosso è molto bassa e che se usiamo con intelligenza le misure imposte dal governo, evitando per un po' di andare nei luoghi affollati, questa epidemia riusciremo a contenerla. “Si spegnerà, si spegnerà, si spegnerà”, ha detto Vella, “e si spegnerà con l'estate, perché questo virus non ama tanto il calore, secondo me questo potrà succedere già tra aprile e maggio, e poi vedrete che si troverà un vaccino, lo abbiamo trovato per l'Ebola e lo troveremo anche per il coronavirus, vedrete che ci sarà anche un farmaco antivirale e vedrete che una volta superata questa stagione questo virus non tornerà nelle forme che stiamo vedendo in questi giorni”. Informare senza allarmare. Descrivere senza terrorizzare. Raccontare i problemi – che sono tanti – senza alimentare il panico. Capire quello che sta succedendo senza avere la presunzione di saperne più di chi sta decidendo cosa dobbiamo fare (la Lombardia è blindata, per chi non se ne fosse ancora accorto) e senza continuare a dire che non sta succedendo nulla (e senza continuare a prenderci in giro dicendo che le città non si fermano). E soprattutto, come oggi forse avrebbe detto Manzoni, osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Una terza via c'è. Basta solo volerla vedere e soprattutto volerla capire.
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