L' articolo di Andrea Ichino, apparso sul Foglio il 19 febbraio scorso, suscita non poche perplessità e, a tratti, rammaricato stupore. Il punto più discutibile del contributo di Ichino riguarda una sua concezione, secondo la quale professori e ricercatori non dovrebbero essere liberi di fare ricerca su quello che interessa “solo a loro”, ma dovrebbero invece condurre le loro ricerche su tematiche che interessano alla gente, perché è la gente che paga i loro stipendi con le tasse. Questo argomento, che proposto al lettore medio in questi termini è ovviamente semplicistico, è però abbastanza populista da trovare periodicamente considerazione, e persino approvazione, presso certi pubblici a volte distrattamente liberisti, per usare una semplificazione terminologica. Questo argomento, in realtà, è confutato da qualche secolo di ricerca scientifica. Non si contano infatti i casi in cui importanti innovazioni, con conseguenze decisive sulla vita quotidiana, sono avvenute casualmente per serendipity, o per collegamenti inaspettati tra campi distanti e a prima vista solo teorici, spesso generati dalle strambe curiosità di qualche singolo. D'altra parte, la locuzione curiosity-driven research non è stata coniata a caso, e descrive quella ricerca di base che ai docenti è dato diritto/dovere di compiere seguendo le loro inclinazioni e curiosità intellettuali. L'impresa scientifica ha sempre funzionato su questo patto fiduciario e, bisogna ammetterlo, con un certo successo. Dal punto di vista storico poi, la ricerca ha sempre preso le mosse da problemi di interesse quotidiano. Ma è stato solo il dipartire da essi, con la costruzione di edifici teorici astratti e apparentemente poco concreti, che ha permesso di scoprire approcci diversi e più potenti, e di tornare ai problemi originali con una maggiore ricchezza di idee e di strumenti concettuali, e infine di affrontarli con successo. L'importanza di questo processo, complesso e stratificato, e quindi non riassumibile in un ciclo di valutazione burocratica e ministeriale di pochi anni, ci viene tristemente confermata proprio in questi giorni. Nell'ultimo mese e mezzo abbiamo assistito a una esplosione di instant paper dedicati ai coronavirus che erano invece stati precedentemente meno considerati. Come mai? Facile rispondere. Adesso, ma solo adesso, interessano all'uomo della strada. Peccato che ci si arrivi un po' tardi. Se questi virus fossero stati studiati di più prima, anche solo per mera curiosità, oggi sapremmo come affrontarli meglio, li conosceremmo di più, e maggiore conoscenza genera, come noto, meno panico. Per ulteriori dettagli si veda anche l'ottimo articolo di Luca Carra e Sergio Cima pubblicato su Scienzainrete il 21 febbraio scorso. E' buona pratica, insomma, esplorare le direzioni suggerite dalla curiosità personale, anche se apparentemente lontane dalle applicazioni concrete. Dinanzi a una realtà più vasta e ricca di sorprese di quello che possiamo immaginare, è nostro dovere non essere arroganti, cioè non credere di sapere a priori cosa interessi davvero o meno.
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