Ero all'ospedale di Phuket per un controllo di routine. Il medico ha guardato le analisi, poi scuro in volto mi ha detto: la cosa è seria, lei ha un tumore al fegato, le consigliamo di andare a casa. Ecco in quel momento, in cui avrei voluto avere con me la mia famiglia e gli amici, ho capito molto bene qual è il grande limite di questa vita che facciamo”. Sara, 42 anni, romana ma londinese d'adozione da due lustri, è una digital nomad. Fa la traduttrice, “principalmente di videogiochi”, e non ha mai avuto bisogno di andare in ufficio, perché per lavorare le basta un computer portatile e una connessione a internet. Così un giorno di cinque anni fa, stufa del grigiore della capitale britannica, ha scelto di affittare la sua casa a Londra (“non sono ricca, ma ho avuto fortuna, l'ho comprata dopo la crisi del 2008”) e di iniziare a girare il mondo. Dopo l'infausta diagnosi è tornata a Roma, dove vive la sua famiglia, convinta di doversi sottoporre a un'operazione e a un percorso di chemioterapia. Ma non è andata così. “I dottori thailandesi non avevano sbagliato. C'era qualcosa di strano nel mio fegato che poteva sembrare un tumore, ma era qualcos'altro. Nessun dottore mi ha saputo dare una spiegazione, forse è l'evoluzione di una parassitosi. Alla fine ho fatto un po' di convalescenza e non appena sono stata meglio ho ripreso a viaggiare”.
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