
Perché serve sempre la competenza
E finalmente cominciamo ad accorgercene. Anche se ogni appello al parere degli esperti sembra ridurre gli spazi democratici. Un dilemma antico per l'occidente
E fino a questo momento non conosco società democratiche che hanno potuto fare diversamente. L'idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico, per restituirla tout court ai cittadini è un mito estremista che ha prodotto dittature sanguinarie o Berlusconi, e il ‘comitato' è un sottoprodotto rispetto a queste due tragedie”.
Che cosa c'era di sbagliato nella “spigolosa” posizione di D'Alema? Umberto Eco, che a Gargonza ci andò, rispose in seguito a questa domanda, sostenendo che con il suo “altezzoso monito” l'allora segretario del Pds aveva rotto “il legame che si era instaurato nel 1996 tra mondo politico e società civile”. Ruppe il giocattolo dell'Ulivo, voleva dire il professore piemontese. D'Alema sbagliava, secondo lui, a pensare in termini di pura contrapposizione il rapporto tra la sfera dei partiti e “gli elementi professionalmente non politici” a cui bisognava invece dar voce: non è che al di fuori dei partiti ci fosse solo “l'assemblearismo sessantottesco”, c'erano anche “rappresentanza professionali, circoli culturali, gruppi di volontariato”, tutte realtà che non solo non hanno nulla a che vedere con il berlusconismo (che per Eco aveva significato nella storia di questo paese “l'opposto di una mobilitazione della società civile”), ma che non hanno neanche mai minimamente pensato di “opporsi ai partiti politici”. Il che sarà pure vero, ma dopo quasi un quarto di secolo, in cui non l'opposizione, ma proprio l'ostilità ai partiti politici e alla politica come professione è cresciuta a dismisura, viene voglia di chiedersi se davvero ci sia da scommettere con tanta fiducia sullo “spontaneo aggregarsi di gruppi diversi”, come scriveva speranzoso Eco. Lui contava gli anni di distanza dal ferale discorso di Gargonza: quindici, diceva (arrotondando). Per poi concludere fiducioso: vedo finalmente riannodarsi il legame spezzato a sinistra fra politica e società. Quel che vedeva nel 2011 erano, evidentemente, i primi Vaffa Day: non ancora Toninelli ai Trasporti o Di Maio agli Esteri, ma già l'annuncio – se avesse voluto studiare meglio la cosa – dell'uno vale uno grillino e, scrutando un po' più lontano, la spettacolare vittoria del dilettantismo politico nell'elezione generali del 2013. Con tutto quel che ne è seguito.
E oggi? Oggi, forse, qualche segno di resipiscenza si coglie, qua e là. Tenete da canto, per ora, gli spigoli di D'Alema e considerate un paio di esempi. Dicevamo Sanremo. Beh: Amadeus è un fior di professionista e i numeri son lì a dimostrarlo: ha fatto un Festival quasi perfetto. Certo, può sempre saltar fuori un Red Ronnie che gli rilascia la patente di “bravissimo presentatore” solo per aggiungere subito dopo che “non capisce un cazzo di musica”, e quindi come diavolo può fare il direttore artistico, ma concediamolo: non si può fare contenti tutti. E poi, per un Red Ronnie che sbrocca, c'è un Renzo Arbore al quale la settimana sanremese è piaciuta molto. E siccome il Festival di Sanremo è anzitutto uno spettacolo per la tv e come tale va giudicato, Red Ronnie può pure mettersi l'anima in pace: ha ragione Arbore, che di televisione ne capisce, ad apprezzare, non lui a mugugnare. Infine, anche la critica musicale ha premiato il vincitore, Diodato, quindi direi che possiamo chiuderla qui.
Altro esempio, un po' più probante: il coronavirus. Provate a rifare il dibattito sui vaccini ora, con decine di milioni di cinesi in quarantena, città ridotte a fantasma, la Diamond Princess da giorni alla fonda nel porto di Yokohama e i laboratori di tutto il mondo impegnati nella ricerca spasmodica di cure. Vedete oggi che effetto sconsolante fa l'affermazione: “Al momento, non esistono vaccini”. Purtroppo non c'è proprio da esultare, e su questo sono tutti concordi. Nemmeno il più spericolato dei conduttori televisivi (e ce ne sono) ha infatti ancora pensato di allestire un talk show con sobri vaccinisti da una parte e, dall'altra, invasati antivaccinisti che se la prendono con le multinazionali del farmaco e propongono di affidarsi a improbabili medicine alternative (Quando questo format fintamente pluralista sarà esaurito, non sarà ancora il canto del gallo del positivismo o la fine di un lunghissimo errore e l'apogeo dell'umanità, ma ci mancherà poco – non me ne voglia Nietzsche).
Certo, uno può sempre dire: la fai facile tu, dopo tutto si tratta di scienza, lì le competenze sono certificate. Fino a un certo punto, in realtà. Ha fatto notizia la recente pronuncia della Corte d'appello di Torino, che ha riconosciuto il risarcimento per infortunio sul lavoro per un caso di tumori cerebrali che, a detta dei giudici, sarebbero insorti a causa dell'uso prolungato di telefoni cellulari. Ne ha parlato Luca Simonetti su questo giornale: se si va a leggere la perizia tecnica su cui è fondata la sentenza, si vedrà che essa cade appieno nella fallacia sapere-potere, che per Maurizio Ferraris è stata “l'argomento principale con cui il postmoderno si è impegnato a mettere fuori gioco l'illuminismo”. Vale a dire: siccome l'organizzazione del sapere scientifico è legata a determinati assetti di potere (e come potrebbe non esserlo, dati i costi della ricerca in campo medico), si dirà che i risultati scientifici sono influenzati e distorti dagli interessi in gioco. Con questa motivazione, i periti a cui si sono rivolti i giudici piemontesi hanno creduto di poter giudicare inattendibile, e quindi accantonare, gran parte della letteratura scientifica di merito, perché prodotta e sostenuta da finanziamenti privati. Ovviamente non è così, perché non basta avere interesse a una cosa per dimostrare che essa è vera, così come non basta guardare chi mette i soldi per indovinare cosa uscirà dai laboratori, sicché sarà certamente buona cosa sapere chi mette i soldi (cultura e critica democratica), ma anche attendere con probità di ricercatore i risultati di laboratorio (cultura e razionalità scientifica). Intanto, però, quel tipo di perizia gira ancora nei tribunali italiani.
Figuriamoci, però, cosa succede se a parlare non è uno scienziato, un medico, un biologo, quando non sono disponibili risultanze empiriche: chi stabilirà allora cosa è vero, cosa è giusto, cosa è bello? Chi sarebbero i competenti, in questo caso? La democrazia sembra sia stata inventata proprio perché c'è qualche difficoltà a far valere una qualche specifica competenza nelle cose della politica (come dell'arte, o della morale). E, all'inverso, ogni appello alla competenza sembra ridurre gli spazi democratici: se dobbiamo stare a sentire quel che dicono i tecnici, gli esperti, gli scienziati, quale ambito di decisione rimane al popolo sovrano? E che sovranità è quella, di chi deve limitarsi a dire di sì al parere recato dall'esperto?
E' una vecchia questione, tanto vecchia che la si ritrova già in Platone. Il filosofo non ci poteva credere: quando l'Assemblea deve ristrutturare il porto del Pireo si affida agli ingegneri, quando bisogna redigere un piano di battaglia chiama gli strateghi militari, mentre quando si tratta di ben deliberare sulle cose della città, ecco d'incanto che tutti prendono la parola. Il ciabattino, che solo di scarpe può dirsi esperto, prende la parola pure in affari di giustizia: ma che ne sa? Che volete che sappia della sospensione della prescrizione? (No, la prescrizione non c'era, ad Atene: mi sono concesso un piccolo anacronismo). E' noto quale fosse la soluzione, per Platone: finché i filosofi non saranno re, o i re filosofi, non v'è speranza che la giustizia regni nella polis. Naturalmente, era una soluzione assai poco democratica, per non dire che non lo era affatto. Ma consegnava al pensiero dell'occidente un problema non da poco: se vuoi che siano i cittadini in assemblea a decidere, allora saranno gli incompetenti; se invece vuoi una decisione presa da competenti, allora non sarà democrazia.
Per sottrarsi a un simile dilemma ci sono in realtà diverse strade. La prima consiste nel negare puramente e semplicemente che vi siano competenze indiscusse, riconosciute e riconoscibili, alle quali affidare la deliberazione in materia politica. In democrazia tutti partecipano alla decisione perché nessuno ne sa più degli altri. Senza questa premessa scettica e relativistica, non avrebbe senso affidare la decisione al numero, alla maggioranza. Questa era, per esempio, la convinzione di Hans Kelsen, forse il più grande giurista del secolo scorso, che difendeva però una concezione pilatesca della democrazia: ognuno persegua pure, in cuor suo, la verità e il bene.


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