L'America deve guidare il mondo? Alcune letture

Dalla “misurata” educazione idealista di Samantha Power al realismo dei teorici del disimpegno

    L' America dovrebbe ancora guidare il mondo? Se sì, con quali strumenti? Con quale intensità? Dovrebbe farlo con le mani sul volante oppure from behind, secondo la terminologia ereditata dall'era Obama? Dovrebbe ricorrere, ove si presenti la necessità, all'uso della forza e al concorso diretto in operazioni di regime change, oppure limitarsi agli strumenti della diplomazia e votarsi al multilateralismo, parola che secondo Madaleine Albright gli americani trovano indigesta perché ha troppe sillabe e finisce con “ismo”? E in caso di risposta negativa: qual è l'alternativa al potere americano in un mondo in tempesta? Chi riempirà i vuoti di potere se non i peggiori nemici della democrazia e dei suoi valori? E' possibile trovare un punto di equilibrio, una sintesi, fra gli ideali universali che l'America proclama e gli affanni di un contesto geopolitico sempre più segnato da nazionalismi illiberali e potenze regionali con velleità espansionistiche, che rimangono per lo più impunite quando le mire si trasformano in fatti?

    Una pletora di pubblicazioni mostra l'urgenza della riflessione intorno a queste domande, che definiscono la nostra epoca. Nel suo memoir intitolato The Education of an Idealist Samantha Power articola, in forma di racconto personale, la posizione idealista che ha sostenuto dai tempi in cui, in veste di giornalista, si è occupata di genocidi e tragedie umanitarie, rileggendola però alla luce delle esperienze di governo in un'amministrazione Obama pragmaticamente piegata alle esigenze della realtà. Il risultato è un conflitto fra le grandi, illimitate aspirazioni giovanili e le più misurate conclusioni di chi si è adoperata nei meccanismi del governo e della diplomazia e ne ha sperimentato complicazioni e contraddizioni. E' una lettura che si accoppia bene alla biografia di un gigante della diplomazia americana, Richard Holbrooke, scritta da George Packer, intitolata Our Man: Richard Holbrooke and the End of the American Century . Di lui Power ha detto che aveva la nomea di uno che mentre parla con il presidente degli Stati Uniti guarda dietro le sue spalle per vedere se c'è qualcuno che gli potrebbe essere più utile. E' stata Kati Marton, l'ultima moglie del diplomatico scomparso prematuramente, a scegliere Packer come biografo del marito, e molti hanno detto che forse, a libro finito, si sia pentita della scelta. Il ritratto dell'uomo è a tratti impietoso e quello del diplomatico, grande negoziatore degli accordi di Dayton, è un chiaroscuro fatto di grandi valori e piccoli calcoli politici, di ideali universali e compromessi particolari. Una lettura istruttiva per addentrarsi nella fine del secolo americano annunciata nel sottotitolo. Le memorie del diplomatico di lungo corso William Burns, intitolate The Back Channel: A Memoir of American Diplomacy and the Case for Its Renewal offrono invece un controcanto iper-realista: agli entusiasmi nati dopo la fine della Guerra fredda, Burns oppone la lunga serie di errori e calcoli sbagliati delle amministrazioni democratiche e repubblicane, che hanno contribuito a svalutare il ruolo della diplomazia, nelle convinzione che, dopo qualche scossa di assestamento, la storia si sarebbe dileguata da sé. Una versione più estrema e urticante di questa argomentazione si trova nel libro The Hell of Good Intentions: America's Foreign Policy Elite and the Decline of U.S. Primacydi Steve Walt, politologo di scuola realista che critica le premesse stesse su cui si fonda l'idealismo americano.