
La protezione sociale non basta
Un paese fermo da vent'anni con un debito che rischia di strangolarlo. E senza crescita c'è poco da redistribuire. Per cambiare marcia servono più investimenti, pubblici e privati
Non mi soffermerò se non brevemente su questo punto – che pure è importante. Dico solo che mi è pressoché impossibile riconoscere i Cinque stelle come movimento di sinistra e ancor più come forza riformista, visto che nella loro pur confusa composizione mi appaiono perlopiù l'opposto; che mi risulta di difficile comprensione la necessità di un'“alleanza strategica” dal momento che si prospetta un ritorno pieno al proporzionale, sistema che spinge i partiti a presentarsi ognuno per suo conto e a esaltare anzi le rispettive differenze; e che infine ho la convinzione che questa traiettoria – accompagnata da una serie di concessioni ai Cinque stelle nella pratica di governo – possa farci perdere l'orientamento e molti consensi. Faccio il sindaco e intendo continuare a farlo, ma il passaggio è delicato. Per questo ho accolto volentieri la proposta del Foglio di mettere in fila alcune idee sui problemi del paese e su quelle che a me pare debbano essere le priorità per il mio partito.
La vera debolezza di una linea che fa della protezione sociale il primo tratto identitario del Partito democratico – oggi, nel 2020 – è a mio avviso che non tiene adeguatamente conto delle condizioni del paese, della sua drammatica stagnazione e delle sue conseguenti priorità. Così facendo rischia anche di perdere di vista alcune delle principali ragioni del disagio sociale e delle diseguaglianze, che appunto affondano nelle specificità del “caso italiano”, allontanando la possibilità di contrastare questi fenomeni con efficacia.
Quando parlo di specificità del caso italiano mi riferisco alla caratteristica unica dell'Italia all'interno dell'Unione europea e tra i paesi sviluppati: siamo l'unico paese sostanzialmente fermo da vent'anni. Tra i 28 stati dell'Unione e tra i 19 della zona euro, negli ultimi vent'anni c'è stato un processo di convergenza. Il pil è aumentato in tutti i paesi e le distanze tra gli stati si sono ridotte. L'Italia è l'unica eccezione. Nel 2000 il reddito reale pro capite italiano era pari al 103 per cento della media della zona euro. Nel 2018 è sceso all'86 per cento, perdendo 17 punti. Rispetto all'Unione europea, l'Italia nel 2000 era al 120 per cento della media. Nel 2018 si ritrova 25 punti più in basso (95 per cento). Mentre negli ultimi vent'anni tutti i paesi hanno aumentato il pil pro capite, l'Italia è l'unico ad avere un pil pro capite inferiore a quello del 2000.
Siamo caduti e non ci siamo rialzati: da quando abbiamo toccato il fondo, nel secondo trimestre del 2013, il nostro pil è aumentato solo del 4 per cento, meno della metà della Grecia, del Portogallo e della Finlandia, che ci precedono nella parte bassa classifica; un terzo di quello francese; un quarto di quello tedesco, un quinto di quello inglese e un sesto di quello svedese.
Dopo la grande depressione gli altri hanno ripreso a correre – tutti: paesi che hanno praticato l'austerità e paesi che l'hanno ignorata, paesi dell'area euro e paesi con moneta nazionale: noi no. E' vero, siamo usciti per ultimi dal tunnel e a differenza degli altri paesi, meno indebitati, abbiamo affrontato con maggiore lentezza la crisi bancaria. Questo aggiunge una spiegazione, ma non cambia il dato di fondo: siamo un paese fermo da vent'anni con un debito che rischia di strangolarlo.
Anche l'austerità è un'illusione, se si è fermi. Dal 1996 a oggi l'Italia ha registrato un avanzo primario medio del 2 per cento all'anno. Vuol dire che nella media di questi anni, al netto degli interessi, le uscite dello stato italiano sono state significativamente inferiori alle entrate. Se fossimo una famiglia potremmo dire d'aver complessivamente risparmiato e “messo da parte” una cifra, ai valori attuali, pari a circa 700 miliardi di euro. Nessun paese occidentale è stato altrettanto virtuoso. La Germania non ha fatto altrettanto, eppure… Nei trend del debito italiano non c'è praticamente traccia di tutti questi anni di disciplina di bilancio. Dal 2006 a oggi – mentre il debito pubblico della Germania scendeva dall'86 per cento al 68 per cento del pil – il nostro è salito dal 104 per cento al 134 per cento: ben 30 punti, a causa degli interessi che ogni anno sono andati ad aggiungersi al totale (nel 2019 65 miliardi, saranno 76 quest'anno) ma soprattutto perché in questi quindici anni la nostra economia è cresciuta solo dello 0,5 per cento medio, quasi nulla. La Germania, il cui debito è un quarto del nostro, nel frattempo è cresciuta tre volte di più.
L'austerità dunque non basta (anzi, a volte fa danni). Se l'Italia non riprende a crescere è come cercare con fatica di riempire un secchio bucato. Siamo in un loop di debito che cresce, interessi che si mangiano tutto e pochi euro residui – in deficit – per dare qualche stimolo al paziente e fare un po' di protezione sociale. Certo, c'è il contrasto dell'evasione fiscale, ma è pensabile che basti a risalire la china?
Occorre una crescita, quindi, senza la quale c'è poco da redistribuire. E in particolare è fondamentale rilanciare la produttività, che è stagnante addirittura dagli anni Novanta. C'è un dato in particolare che colpisce: la produttività totale dei fattori – che indica la capacità di incorporare le nuove tecnologie – è ferma ai livelli del 2000. Come se la rivoluzione tecnologica che c'è stata in questi ultimi decenni non ci avesse neppure sfiorato! E' abbastanza impressionante.
Il problema accomuna l'industria e i servizi. Siamo la seconda manifattura d'Europa ma rischiamo il sorpasso da parte della Francia, che ha una produzione manifatturiera di poco inferiore alla nostra con 800 mila addetti in meno. Un addetto in Italia crea 60 mila euro di valore all'anno, in Francia 73 mila, e in Germania 77 mila.
E purtroppo non esistono bacchette magiche. La produttività è il frutto di una serie di fattori, su ognuno dei quali è necessario agire per recuperare un lungo ritardo.
Per cambiare marcia servono più investimenti: privati, pubblici e delle multinazionali. Tra il 2012 e il 2019 i depositi delle aziende sono cresciuti di 128 miliardi: bisogna convincerle e investire nel digitale, in ricerca, in nuove soluzioni organizzative, in capitale umano (come siamo riusciti a fare con la prima fase di Industria 4.0, muovendo 240 miliardi di euro, e come oggi fatichiamo a fare). E perché le aziende si decidano a investire servono un'amministrazione pubblica più efficiente, una forte semplificazione delle norme e della burocrazia – inserita da Zingaretti tra i “cinque obiettivi per l'Italia di domani” – e una giustizia più rapida.
Non solo: in un mercato che sempre di più premia chi è capace di innovare, noi scontiamo la bassa spesa in ricerca e un sistema formativo antiquato, che comprime la qualità del capitale umano; scontiamo i riflessi di un debito pubblico elevato, la carenza di infrastrutture, l'alto livello dell'evasione fiscale, l'elevata età media della nostra forza lavoro, l'eccessiva centralizzazione della contrattazione, che non riflette le differenze di produttività. Una recente ricerca dell'economista Marco Simoni aggiunge una spiegazione: da metà degli anni Novanta al 2007 l'Italia ha importato troppe e diverse riforme economiche dall'estero, incoerenti tra loro, col risultato di mettere insieme un mix letale di rigidità e flessibilità che ha fortemente penalizzato il sistema produttivo.
Nell'economia globalizzata e digitalizzata crescono le imprese ben integrate nelle catene globali del valore e che operano nei settori ad alto tasso di innovazione. Noi di imprese con queste caratteristiche ne abbiamo troppo poche. Anche al nord, dove sono molte quelle integrate al livello internazionale, ma in molti casi in settori tradizionali esposti alla concorrenza dei paesi a basso costo. Ma soprattutto abbiamo un tessuto produttivo fatto per più del 90 per cento di aziende piccole e piccolissime, che fanno fatica a trarre benefici dal progresso tecnologico e che anche per questo hanno una produttività nettamente inferiore alla media delle imprese più grandi.


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