La logica del cinema è la poesia. Il documentario su Tarkovskij fatto da suo figlio

    Roma. Che cos'è “poesia”? Che cos'è “parola di senso” e che cosa, nella “parola poetica”, si sottrae necessariamente al significato? Siamo posseduti dalla poesia o la possediamo? Ne “Il cinema come preghiera”, documentario di Andrej Andreevicč Tarkovskij, ripartito in nove sezioni (otto capitoli e un epilogo), presentato lo scorso anno alla Settantaseiesima Mostra d'arte cinematografica di Venezia e prossimo ad uscire nelle sale (il 20 gennaio), il figlio del grande regista di Zavraž'e si interroga sulla natura della relazione del padre con la propria opera e con la ricezione della stessa. Ci accompagna lungo il percorso cinematografico ed umano della sua ricerca, vòlta a cogliere la sostanza emotiva dell'uomo di fronte a se stesso, alla propria infanzia e alla propria coscienza spirituale, nonché a ribadire l'importanza del ruolo dell'artista e dell'arte nella società: “l'arte è uno dei gesti più disinteressati dell'umanità. Il significato dell'arte è una preghiera”. In questo documentario, che è, nel contempo, un testamento poetico e una profezia sull'attuale minaccia ecologica, veniamo trasportati dal mondo materiale a quello spirituale e viceversa, e nell'ordito della loro specifica modalità d'interazione, ovvero nella “logica della poesia”. “Ciò che mi affascina in maniera straordinaria nel cinema sono i collegamenti poetici, la logica della poesia”, afferma A. Arsen'evicč (“Scolpire il tempo”, Istituto Nazionale A. Tarkovskij, 2018). E, mentre sullo schermo scorrono immagini di repertorio e frammenti dei film, ci si sente attraversare, per usare un'espressione di Mandel'štam, dalle biglie dei secoli (“Nessuno è nessuno. I secoli rotolano sui secoli come biglie”, Quaderni di Voronež, Mondadori, 1995). Si intrecciano le voci di A. Arsen'evicč e di A. Andreevicč che dice le poesie del nonno Arsenij Aleksandrovic, uno dei massimi poeti russi del Novecento (infatti fu colpito dalla censura staliniana, che ne aveva colto la grandezza). Ascoltiamo Bianco, bianco giorno…, Dopo la guerra (parte V), L'orbita (suddivisa in tre stanze), La foresta d'Ignat'evo, La caccia, Fotografie. A tal proposito, degna di nota è la traduzione di poesie e racconti di Arsenij ad opera di Gario Zappi (“Stelle tardive. Versi e prosa”. Giometti & Antonello, 2017). Le tre voci si intessono l'una con l'eco dell'altra, orchestrando una sovrapposizione delle generazioni che è più che un passaggio di testimone: è spuma che lascia sulla battigia il permanere di una comune nostalgica evocazione di un'armonia perduta, di una compassione irrealizzata. Ciò che viene evocata, come in un coro greco in cui il corifeo è il tempo-Aiòn (dal gr. “la forza vitale”, “la durata”, l'“eternità”), non è solo la memoria dei singoli e del contesto sociale e storico in cui operarono, ma soprattutto la tragica consapevolezza del nostro essere uomini, “semplicemente materia dotata di spirito, ma materia”, accomunati dalla debolezza di fronte alla vastità, all'assurdità e all'indecifrabilità dell'essere al mondo e dal desiderio di divenire liberi, di librarci in volo. Che A. Arsen'evicč desiderasse fare un film su Amleto – di cui aveva già curato una regia teatrale nel 1976 – è esplicativo del suo costante interpellare il rapporto fra l'individuo e il contesto sociale e storico in cui agisce, ovvero fra il “tempo interiore, frammentario” e il “tempo lineare, quantitativo (Kronos)”. “Il pericolo di sparire, di perire nel nome del movimento, del progresso, e svanire totalmente in esso. Questa è la tragedia di Amleto”. La tragedia del principe della marcia Danimarca consiste, come precisa il “poeta” di Zavraž'e, nel “desiderio di riparare quel filo spezzato del tempo, dando tutto se stesso a servizio del processo storico, offrendosi come suo catalizzatore. E annullandosi per sempre in quel processo”. L'interesse estetico dell'obiettivo di Andrej Arsen'evicč si rivolge alla discrepanza fra l'individuo e la realtà, alla fatalità del fallimento nella vita reale dei personaggi che consideriamo ideali, alla logica poetica dello juròdivy (“pazzo sacro”, “idiota in Cristo). “Per me questo [Stalker] è un film sull'uomo che naturalmente soffre una sconfitta nel senso pratico del termine, ma in quanto idealista rimane un cavaliere in nome dei valori spirituali. Il nostro eroe, Stalker, è sulla stessa linea di Don Chisciotte, del Principe Myškin, personaggi di romanzi che definiamo ideali”. Ma, ci consola Arsenij: “Anche se sei morto, vivi (…) Quanto v'è di caro, chiaro, vivo, / ripete il suo volo / se l'angelo dell'obiettivo / il tuo mondo prende sotto l'ala (Fotografie)”.

    Elisa Veronica Zucchi