S ubito prima della febbre spagnola, l'Europa fu colpita da un'epidemia continentale invasiva e però delicatamente rinnovatrice: il giapponismo. All'influsso benefico che l'astro del Sol Levante esercitò nel rinnovamento dell'arte occidentale fra il 1860 e il 1915 è dedicata la mostra di Palazzo Roverella a Rovigo, “Giapponismo. Venti d'oriente nell'arte europea”, a cura di Francesco Parisi, aperta fino al 26 gennaio prossimo (catalogo Silvana Editoriale). C'è il sospetto che questo influsso sia continuato fino ai giorni nostri perché il Giappone piace praticamente a tutti, dai minimalisti che comprano cartoleria e vestiti da Muji, ai millennial che oggi mangiano prevalentemente sushi con conseguente boom di ristoranti in ogni città d'Europa, dagli amanti New Age del misticismo buddista/zen/soka gakkai, ai lettori di fantascienza manga e fan splatter del Tarantino di Kill Bill. Insomma, ognuno può trovare quello che cerca nell'impero del Sol levante. Come sempre gli artisti hanno preparato il terreno, complici le mode parigine delle japonaiserie, all'inizio confusa ovviamente con la cinoiserie, ma è chiaro che la Francia e Parigi hanno fatto da apripista, grazie anche agli instancabili commerci di Samuel Bing, la cui galleria ebbe un peso enorme visto il nome che era tutto un programma: Art Nuveau. Da buon mercante, Bing, oltre a ospitare grandi artisti, pubblicò anche una rivista per pubblicizzare la sua mercanzia, “Le Japon artistique”, che fu avidamente consultata anche dagli artisti perché contribuì a formare un gusto generale – e un mercato. Tra Francia e Belgio a un certo punto la febbre del giapponismo fu così alta che in tre, anzi in quattro si contesero il primato: l'incisore Félix Bracquemond, i fratelli Jules ed Edmond de Goncourt (cui oggi è dedicato il più celebre premio letterario d'oltralpe) e Claude Monet cioè il primus inter pares fra gli impressionisti. Dalla “capitale del XIX secolo” il passo per l'epidemia nipponica fu breve.
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