I l tempo che viviamo è il giorno dopo Charlie. Altro che Terrible Ten. Così dovremmo chiamare questi anni e il presente e il futuro che stanno apparecchiando, e il loro spirito, il nostro spirito: il giorno dopo Charlie. Che non è tanto l'8 gennaio del 2015, quando tutti eravamo tutti Charlie e lo scrivevamo e dicevamo dappertutto, spavaldamente convinti che la satira e il giornalismo dovessero essere liberi sempre e senza condizioni, furiosamente incazzati per quell'orrida strage che ieri ha fatto cinque anni. La ricordate, ma ricordiamola di nuovo: la mattina del 7 gennaio del 2015, due jihadisti (deux salopards, due bastardi, ha scritto il magazine Marianne) entrarono nella redazione di Charlie Hebdo, a Parigi, e aprirono il fuoco. Morirono 12 persone, alcune di loro erano firme storiche di vignette altrettanto storiche, e formidabili. Il giorno dopo Charlie è l'8 gennaio del 2020 e pure del 2019 e del 2018 e del 2017, e tutti i giorni che abbiamo lasciato che ci convincessero che esiste un modo per rendere inoffensivo il racconto della realtà, e che si deve tutelare chi ascolta molto più di chi dice. Cinque anni fa, Charlie vendeva 8 milioni di copie, quest'anno non va oltre le trentamila. Spende moltissimi soldi nella manutenzione dei locali della redazione e nel mantenimento della sicurezza. Fatica a sopravvivere, come molti giornali, e più di altri giornali. Perché ha costi maggiori, e difficoltà maggiori, la più importante delle quali è insormontabile e la evidenziava ieri Libération: dallo spirito di Charlie ci siamo distaccati tutti, più o meno silenziosamente. A quell'idea di libertà incondizionata e non condizionabile che sventolavamo per rivendicare che quei 12 morti non erano morti invano, non crediamo più. Dopo la strage del 7 gennaio è finito un modo di fare giornalismo, di dire le cose, di farsi un'idea del mondo, ed è incredibile quanto poco ricolleghiamo a quella ferita così insanabile tutto quello che è venuto dopo, il giustizialismo degli hashtag, la cancel culture, l'appropriazione culturale, e tutte le forme più o meno progressiste di dar corda al terrore di dire le cose così come sono, o così come le pensiamo.
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